La star di The Amazing Spider-Man e La battaglia di Hacksaw Ridge è tornato al cinema con un ruolo romantico e, secondo alcuni, strappalacrime: in We Live in Time è un giovane marito che ha troppo poco tempo per vivere quello che potrebbe essere l’amore della sua vita. Ce ne ha parlato in occasione della prima europea al festival di San Sebastián, dove ci ha spiegato il suo metodo e svelato perché, secondo lui, a proposito di recitazione ci aveva visto giusto il Bardo

Intervista a Andrew Garfield

Lo incontro al festival del cinema di San Sebastián, qualche mese fa. Andrew Garfield è arrivato per presentare We Live in Time – Tutto il tempo che abbiamo, il film di John Crowley che chiude il festival.

Ho visto il film poche ore prima al Centro di cultura contemporanea Tabakalera: un’anteprima per pochissimi giornalisti in vista delle poche interviste di oggi. Una sorta di numero chiuso solo per la stampa dei Paesi in cui il film aveva già una data di uscita prevista, e l’Italia c’era. Ma con un caveat: nessuna intervista è pubblicabile prima della data di uscita del film nel proprio Paese.

Due nomination all’Oscar e un Golden Globe all’attivo, in We Live in Time Garfield interpreta un giovane divorziato che si innamora di una chef (Florence Pugh): una grande storia d’amore piena di scossoni che deve fare i conti con la malattia di lei.

Quando ci vediamo in una suite dell’hotel Maria Cristina, Garfield si concede il lusso di una scatola di praline di cioccolato. Mi chiede del film: ovviamente, siamo qui per parlarne.

 

Sembra esserci l’invito di una logica più orientale che occidentale: dare valore al tempo, concedersi il lusso di viverlo…

A volte abbiamo la sensazione di non avere abbastanza tempo per fare tutto quello che vogliamo, non trovi? Vogliamo essere in posti diversi, parlare con persone diverse, portare avanti progetti che ci appassionano…  C’è qualcosa di poetico in tutto questo, credo. Girare We Live in Time è stato un bel modo per indagare quel bisogno esistenziale, le nostre ansie, i dolori, le gioie, gli stati confusionali. Vivere tutto questo in un film è stato un viaggio interessante, forse più interessante del viaggio che avrei fatto se fossi stato uno scultore, ad esempio, e avessi cercato di esprimere tutto questo con un’opera d’arte nel mio studio.

Garfield  © SSIFF / Jorge Fuembuena

Si parla molto della scena del parto, in cui il figlio dei due protagonisti nasce nel bagno di una stazione di servizio causa traffico: era coreografata con precisione?

Sono stati due giorni di riprese emozionanti, molto intensi. Quando ho letto quella scena nella sceneggiatura, ho pensato subito: “Devo fare questo film”. Non avevo mai letto niente di così divertente e vero, qualcosa di unico, quasi mistico: un miracolo che si compie davanti ai tuoi occhi. Doverla girare, però, mi ha quasi intimidito. L’avevamo provata un mese prima del giorno delle riprese, la sceneggiatura era chiarissima, passaggio dopo passaggio. Una danza perfettamente coreografata. Eppure, io e Florence abbiamo in qualche modo risposto alle emozioni in modo vero, molto realistico: non abbiamo improvvisato, ma abbiamo reagito in modo personale a quello che doveva succedere da copione. Abbiamo reso la scena viva, insomma: a volte non sentivo bene le indicazioni che arrivavano via telefono, altre volte era Florence a non capirle e poteva reagire arrabbiandosi di più…

E alla fine, un neonato sul set con voi.

Sì, per l’ultima parte. Un livello di realtà ancora maggiore, completamente diverso.

© SSIFF / Jorge Fuembuena

Andrew, sei qualcuno che reagisce alle cose in modo razionale, o più emotivo?

Posso essere una persona molto razionale, ma anche l’esatto opposto. L’ho capito in venticinque anni di recitazione. La mia storia d’amore con la recitazione si è evoluta, è cambiata: a volte mi faceva arrabbiare, altre volte capivo che mi aveva salvato…

… e in venticinque anni è cambiato anche quello che cerchi nei film che fai?

Quello cambia sempre, in continuazione. Sta cambiando anche ora. La cosa bellissima è avere avuto – e avere ancora – la possibilità di ricordare come siamo fatti: tutti possiamo fare qualsiasi cosa. Alcuni mi chiedono: “Come fai a portare questa esperienza sullo schermo, se non hai mai vissuto niente del genere?”.

Davvero?
Sì, davvero. Ma l’immaginazione empatica è un’arma potentissima, uno strumento incredibile che è dentro di noi. Parla con un bravo filosofo, o con uno psicologo: ti confermerà che tutti abbiamo la capacità di essere tutto, di essere qualsiasi archetipo nell’ampio spettro della natura umana. Lo ricordava anche Shakespeare: a volte sei il re, a volte il pazzo, a volte un cavaliere, a volte un povero… È tutto dentro di noi. Capirlo è stata una grande scoperta: puoi essere qualsiasi cosa trovi dentro di te. Sono grato di averlo capito, grato per quella parte di me.

© SSIFF / Gari Garaialde

Anni fa, l’attrice italiana Laura Morante mi disse qualcosa di simile: il personaggio non va mai cercato fuori da sé stessi, a meno che tu non faccia l’imitatore. Hai trovato dentro di te anche il dolore del finale?

Credo di sì. Abbiamo dentro di noi uno strumento e dobbiamo usarlo. Pensa al concerto di un grande musicista che suona il sassofono: può avere una grandissima tecnica, ma se non ci mette l’anima non sentiamo niente. Possiamo ammirarne l’abilità, l’esecuzione corretta, ma se non mette in quelle note il suo dolore, la sua gioia, i suoi sentimenti… non credo diventi arte. Può essere un’affermazione azzardata, ma io sono sensibile soprattutto alla creatività di chi rivela qualcosa di se stesso: a toccarmi è l’artista che in qualche modo svela qualcosa della sua anima nel lavoro che sta facendo. La risposta, quindi, è sì: ogni sentimento che metto nei miei personaggi è mio, di nessun altro.

 



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