I colori esplodono sullo schermo dai primi fotogrammi. Può sembrare anomalo, in un film sulla malattia, sulla vita che finisce. Ma Pedro Almodóvar, a settantacinque anni e alla sua ventitreesima regia, mostra di avere ancora assi nella manica e di saper riflettere sul passare del tempo in modo più lucido che agli inizi. La stanza accanto (The Room Next Door) è il suo primo film in lingua inglese: molti avrebbero scommesso sarebbe arrivato prima, dopo l’Oscar vinto nel 2003 per la sceneggiatura di Parla con lei (Tutto su mia madre vinse pochi anni prima come miglior film straniero ma, si sa, in quel caso la statuetta va alla pellicola, e il suo regista, che pur la ritira, non può considerarsi un vincitore dell’Oscar). E forse questo è il miglior film di Almodóvar in assoluto: già nell’incipit, con Julianne Moore che abbaglia dall’inquadratura iniziale nel ruolo di Ingrid, una scrittrice di successo che firma copie in una libreria di New York, La stanza accanto rivela un insolito potere ipnotico. Raramente Almodóvar, pur con una fotografia così abbagliante, è stato tanto raffinato, evocativo ma non sopra le righe.

Mentre è impegnata nel firmacopie, Ingrid si trova davanti un’amica di vecchia data: è lei a informarla che Martha (Tilda Swinton) è malata di cancro. Ingrid e Martha, che è stata un’importante inviata di guerra, non si vedono da tempo, ma è chiaro che sono state molto legate. Ingrid non ci pensa due volte: va in ospedale a farle visita e dissotterra l’amicizia di un tempo. Trascorrono molto tempo insieme, fra colazioni, passeggiate e l’attesa di buone notizie legate alla nuova terapia sperimentale cui Martha si sottopone. Poi, una doccia fredda: le cure non hanno il successo sperato, e le possibilità di sopravvivere sono appese a un filo. Martha fa a Ingrid una richiesta che la disorienta: può starle vicino – nella stanza accanto del titolo – quando si toglierà la vita con una pillola illegalmente comprata sul dark web? Preferisce evitarsi il calvario della malattia e ha deciso di darsi una morte dignitosa, ma non vuole essere sola.

Scritto dallo stesso Almodóvar adattando il romanzo What Are You Going Through della newyorkese Sigrid Nunez, il film mesce con sapienza generi diversi (ovviamente) senza eccedere nel dramma, concedendo sfumature d’ironia ora mesta ora salata mentre avvolge nei tableau fatti di gialli, di verdi, di turchesi.

Quando Ingrid, dopo aver vacillato, dice sì alla richiesta di Martha cui altre amiche hanno già risposto no, La stanza accanto diventa una sorta di viaggio in un tempo sospeso, mai convenzionale. C’è ben poco di già visto mentre le due amiche partono e si trasferiscono in una villa fuori New York per quella che deve sembrare una vacanza per spezzare la routine. È in quella solitudine che Ingrid e Martha condividono maratone notturne di film e ricordi, fra i piccoli lussi di una casa in stile brutalista con tante stanze e due sdraio deluxe con vista.

Almodóvar non gira semplicemente un film sull’eutanasia, anche se il tema e le sue implicazioni etiche sono ben presenti in un dialogo tesissimo fra Ingrid e un poliziotto bacchettone. Ma un film sull’amicizia e sullo scorrere del tempo. Non necessariamente sulla sofferenza (non indulge mai, infatti, sull’esibizione del malessere fisico di Martha) ma sulle fragilità umane, fisiche e spirituali: probabilmente la ferita più grande per Martha è la frattura che l’ha allontanata dalla figlia, mai sanata fra i viaggi cui il giornalismo la chiamava.

New York, in parte ricostruita a Madrid, non è mai stata così pulita e policroma: la fotografia di Eduard Grau non gioca solo con i colori, ma anche con il dosaggio della luce, soprattutto nel finale innevato fuori città, che cita The Dead, il racconto finale dei Dubliners di James Joyce più volte evocato nelle conversazioni fra le protagoniste.

Splendente nei blu e nei borgogna, Julianne Moore è una presenza tanto rassicurante quando magnetica. Un ruolo che si esprime nei silenzi, nelle frasi ordinarie della convivenza: le basta guardare la neve con gli occhi lucidi o cercare la porta della stanza di Ingrid con lo sguardo, salendo le scale, per riempire La stanza accanto della verità dell’empatia. Una prova che è un capolavoro di commozione: Julianne Moore non fa di Ingrid una donna che arriva a vincere la paura della morte, soprattutto di quella che Martha vuole darsi, ma che riesce ad accettarla lasciando spazio allo stupore per i momenti inattesi degli ultimi giorni di un’amicizia persa e ritrovata.

Campionessa di virtuosismo, la Moore non rivaleggia con la Swinton: le lascia spazio, osserva con silenzioso naturalismo (più vero di molte interpretazioni urlate che attraversano gli schermi nel 2024) il male fisico e morale dell’amica. Che, nelle mani di Tilda Swinton, emerge in tutta la complessità della sua personale via crucis. Quella del corpo legata alla malattia che la consuma, e quella del rimpianto materno che si gonfia fino a diventare insostenibile. La Swinton riesce a mettere a fuoco entrambe e a restituirle senza sbavature.

Dopo il Leone d’oro a Venezia e la prima americana al festival di Toronto, La stanza accanto è arrivato al festival di San Sebastián, dove Almodóvar ha ricevuto il premio alla carriera. “Facciamo quanto ci è possibile perché le tragedie, il dolore quotidiano, l’incomprensione, la menzogna, la mancanza di empatia, l’ingiustizia sociale, l’odio appartengano alla finzione: permettiamo alla vita reale di esistere con equità e pace, divertita dalle finzioni che esisteranno solo sugli schermi” ha dichiarato ricevendo il Donostia Award dalle mani di Tilda Swinton. Il suo film, in qualche modo, parla anche di come affrontare amarezza e incomprensione.

Eppure, l’epilogo con Julianne Moore che recita il finale di The Dead di Joyce – rendendolo più poetico che mai – ci lascia con un segno di speranza. Forse perché ci ricorda che possiamo provare il brivido di essere vivi, o forse perché Julianne Moore che osserva la neve in un dolcevita verde è una delle immagini più belle che il cinema ci ha consegnato negli ultimi anni.



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