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Modi – Three Days on the Wings of Madness: tre giorni di caos [SSIFF]

Star delle star, Johnny Depp gira in Europa il suo secondo lungometraggio dietro la macchina da presa. Un progetto distante da Hollywood per l’ex-sex symbol bello e dannato, attore carismatico che già dall’America si era allontanato per amore, ai tempi del matrimonio con Vanessa Paradis. E che, dopo i guai giudiziari con Amber Heard, sembra ritrovare nel vecchio continente – meno puritano e più tollerante – una sorta di nuova comfort zone. Tant’è che, dopo essere stato Luigi XV in Jeanne du Barry – La favorita del re di Maïwenn, sceglie di ricostruire Parigi a Budapest riprendendo un vecchio progetto pensato ai tempi per Al Pacino: punta sull’italiano Riccardo Scamarcio che dirige in un biopic sui generis dedicato ad Amedeo Modigliani. Settantadue ore nell’inferno professionale dell’artista italiano inseguendo il cliché del genio incompreso in vita, ma facendo di tutto per allontanarsi dal racconto cinematografico mainstream.

Per la prima mondiale, poi, Depp opta di nuovo l’Europa con il festival di San Sebastián, che tre anni fa gli ha tributato il suo premio alla carriera, il Donostia Award. Un cerchio che si chiude, in qualche modo.

In Modi – Three Days on the Wings of Madness, i tre giorni nella vita del pittore e scultore italiano, già logorato dalla tubercolosi, sono attraversate dal mercante d’arte Leopold Zborowski (Stephen Graham), dalla compagna e musa Beatrice Hastings (Antonia Desplat), dal collezionista d’arte Maurice Gangnat, un personaggio con cui lo stesso Pacino si ritaglia un cameo in memoria del progetto che fu: è lui il simbolo di quell’universo artistico che non comprese fino in fondo l’estro di Modi. E proprio a lui la sceneggiatura fa indirizzare una delle battute più basse (Modigliani, pieno di veleno, gli dice “Your power is in your pocket. Your taste is in your ass”).

Ma una sceneggiatura sovraeccitata e grossolana non è l’unico problema del film di Depp. Modi, del resto, pare trasudare un insolito risentimento in più punti. Come quando l’artista ricorda alla Hastings che lui fa arte, lei ne scrive soltanto: in molti, alla première festivaliera, ci hanno visto un attacco più o meno velato di Depp ai suoi critici di una vita. Forse anche alla stampa?

E dopo un incipit rocambolesco in cui c’è chi ha visto Chaplin e chi Jack Sparrow, con Modi in fuga da un café di lusso mentre salta sui tavoli e finisce per fare a pezzi una vetrata attraversandola, il film inizia subito a perdersi fra malinconia bohémienne ed eccessi narrativi, in una finta Parigi in cui italiani e francesi comunicano in inglese mentre la colonna sonora include una canzone spagnola.

Il risultato è confuso, nervoso: un film inquieto in cui diventa difficile cogliere l’essenza dell’artista nei dialoghi ai limiti dell’assurdo con i pittori Chaïm Soutine (Ryan McParland) e Maurice Utrillo (Bruno Gouery). Le loro discussioni allucinate sono più noiose che brillanti.

La fotografia di Nicola Pecorini e del candidato all’Oscar Dariusz Wolski è cupa e polverosa, e sembra esserci poca verità nell’approccio interpretativo, pur volenteroso, degli interpreti: spesso i toni sono troppo macchiettistici per risultare autentici, e il racconto non vibra, rimanendo imbrigliato in una sorta di rievocazione anticonformista del dramma di un talento non riconosciuto e costretto a vivere di stenti.

Che sia un divo con tre nomination all’Oscar a raccontarlo, poi, suona anomalo, vagamente stridente: Depp può sicuramente trovare sceneggiature migliori per esprimersi.



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