Il festival di San Sebastián apre l’edizione 2024 con una nota chic nelle intenzioni ma troppo tiepida nei fatti. Emmanuelle della francese Audrey Diwan inaugura il concorso in prima mondiale con il glamour europeo di star come Noémie Merlant e Will Sharpe e comprimari di lusso del calibro di Naomi Watts. Ma il softcore inerte, vagamente gelido, si rivela una scommessa vinta solo a metà.

Remake in chiave femminista del film di Just Jaeckin, tratto dal romanzo di Emmanuelle Arsan, segue una donna (Merlant) che stavolta non viaggia a seguito del marito, ma ha un incarico importante nel controllo qualità in una catena di hotel di lusso e deve esaminarne uno a Hong Kong. Rivendica, ovviamente, la sua libertà sessuale esplorando l’eros come e quando vuole, in modo ora compulsivo ora distaccato.

I connotati professionali sono da soap opera: c’è ben poco da fare fra una visita al ristorante e una alla camera di un misterioso cliente, Kei (Sharpe), che continua a fare check-in ma si ostina a dormire altrove. Le escort a bordo piscina vengono tollerate ma non ammesse, gli imprevisti hanno i minuti contati, e c’è persino spazio per un banale micro-complotto ai danni della manager dell’hotel (Watts) che i boss vogliono far fuori.

La potente precisione chirurgica de L’Evénement, che tre anni fa portò alla Diwan il Leone d’oro a Venezia, sembra un ricordo sfocato. Pur nell’eleganza di uno sguardo femminile che rigetta il voyeurismo e rivendica a ogni inquadratura il suo amore per una protagonista libera ma forse infelice, Emmanuelle risuona spesso come un’opera vuota, in cui le scene di sesso scivolano su una sceneggiatura sottile, qua e là verbosa in modo inutile. Interi dialoghi in statici piani sequenza esplorano le dinamiche del desiderio e delle sue regole senza riuscire davvero a scavare sotto una superficie che è ripetutamente troppo patinata per risultare onesta.

Così, dalla prima, fredda scena di sesso consumato nei bagni della business classi su un volo per Hong Kong con uno sconosciuto (Harrison Arevalo) fino ai giudizi artefatti sulla velocità dello staff e sulle varianti proposte dallo chef, la sceneggiatura scritta dalla Diwan a quattro mani con Rebecca Zlotowski inanella una serie di note che non si accordano l’una con l’altra. Solo nel finale la regista sembra riuscire a mettere a fuoco le intenzioni del suo remake: ma è decisamente troppo tardi per salvare l’evoluzione di una protagonista che paradossalmente risulta rigida, e in più punti così sgradevolmente indifferente da non accendere quasi nessun tipo di interesse.

È un peccato, perché il talento di Audrey Diwan avrebbe meritato una storia migliore e un’occasione meno confusa per misurarsi con i temi dell’emancipazione, del sessismo o dell’indipendenza.



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