Quando racconti a qualcuno che stai andando in terapia, la prima domanda che ti fanno più o meno tutti è “Pensi di stare meglio?”. Edo Massa è riuscito a ribaltare questo copione portando “Pensi di stare meglio?” al centro della sua graphic novel (e alla fine delle sue interviste, ma questo lo scopriremo a breve). 
 
Leggere Pensi di stare meglio? è un tuffo nella testa del suo autore, in una piscina preparata per il lettore affollata di frequentatori curiosi, paranoie generazionali, appuntamenti dalla psi introspezioni personificate. Massa rielabora una formula ormai entrata sottopelle a una giovane generazione di autori di fumetto attraverso la propria sensibilità ondivaga con un risultato esplosivo. Proprio come il suo tratto, capace di alternare dettaglio e astrazione da una tavola all’altra. 
 
Un po’ come al termine di una seduta di terapia, dopo la lettura di Pensi di stare meglio? ho avvertito la necessità di fissare dei punti. Così ho cercato di contattarlo, e dopo una serie di peripezie siamo riusciti a fissare un incontro in una caldissima giornata di inizio estate, ciascuno dal proprio lato del portatile. 
 
 
Parto con una domanda che scommetto non ti ha ancora fatto nessuno… Pensi di stare meglio?
 
Oh… [ride] Sì, penso di stare meglio, sì. Di solito però è una domanda che mi fanno in chiusura.
Al di là di tutto, penso di stare meglio sì. La volontà di porre una domanda sulla copertina, di rendere particolarmente evidente il fatto che volessi raccontare il percorso di psicoterapia, è collegata al fatto che io stia meglio perché ho portato avanti un percorso.  E starò ancora meglio, e ancora meglio, e ancora meglio…
 
Da persona che ha letto la tua graphic novel grosso modo in contemporanea con la fine di un percorso psicoterapeutico, la domanda che mi ha accompagnato più o meno per tutta la lettura è: in che momento ti è venuto voglia in mente di tracciare il percorso attraverso il fumetto? Io mi ricordo vivevo molto bene quell’ora di seduta e poi mi rendevo conto che nel turbinio della settimana perdevo dei pezzi. Allora uscivo dalla seduta e mi mandavo dei vocali da solo per aiutarmi a ricordare cosa era stato detto. Scrivere e disegnare Pensi di stare meglio? ha avuto una funzione di questo tipo per te?
 
Guarda, è stata un po’ la stessa cosa anche per me, perché alcuni argomenti interiorizzati riemergevano poi in altri momenti. Nella vita ti capita di rifare un po’ gli stessi errori, ma fissare alcuni concetti non mi serviva tanto per non ricommettere l’errore, quanto piuttosto per orientarmi. Per non dimenticare concetti che avevo fissato. Per me i promemoria non erano vocali, ma delle note del telefono. Alcuni degli argomenti sono distantissimi da me adesso, perché la mia volontà era quella di buttare giù appunti scritti subito, fresco dopo lo seduta. Io alla seduta ci andavo in autobus e il ritorno lo faceva a piedi, quindi durante quei 40 minuti scrivevo il mio diario. Poi l’idea del farlo come fumetto è nata abbastanza presto, con la proposta di fare un fumetto arrivata da Minimum Fax. 
Lì mi sono chiesto quale
fosse la storia più urgente che avessi da raccontare; e la storia più urgente, e che avesse anche senso raccontare, in questo caso era la mia, anche perché il personaggio della psicologa mi piaceva un sacco, e quindi… Tra l’altro, avevo già mesi e mesi di appunti presi al telefono sulle note!
 
E Minimum Fax come ha reagito a questa proposta?
 
Allora Io gliel’ho buttata un po’ lì, loro si sono dimostrati interessati anche perché è un argomento non ancora troppo inflazionato, Cioè, se ne inizia a parlare, però non così tanto. Inizialmente mi hanno detto che gli sarebbe piaciuto vedere come l’avrei sviluppato e piano piano siamo andati avanti. 
Poi avuto un rapporto diretto con Carlotta Colarienti, che mi ha fatto da editor, quindi sono stati mesi e mesi di messaggini del “Come stai? Pensi distare meglio)”. [Ride] Per me è la numero uno!
 
 
Nel tuo giro di conoscenze, invece, nella vita quotidiana, come è stata la reazione tanto alla decisione di intraprendere un percorso terapeutico, quanto all’idea di farne un fumetto? La tua psico sapeva che ne avresti fatto un fumetto?!
 
La mia psicologa lo sapeva. Lei è molto professionale, quindi non lascia trasparire molte emozioni, però lo sapeva e mi ha incoraggiato. Se vede che ho entusiasmo per un progetto, lei incoraggia il mio entusiasmo. Credo però mi appoggerebbe a prescindere, qualunque tipo di carriera io decida di prendere: “Se sei convinto tu, vai!”.
Per quanto riguarda la parte in cui racconto dei miei amici, poter mettere su carta storie mie, che mi emozionano, è stata un privilegio (e una fortuna!). Ovviamente avevo anche un certo timore, perché raccontando di te potrebbe non farti piacere riconoscerti; invece, e per fortuna, sono stati tutti molto entusiasti. 
 
Mi ha sorpreso un po’ meno invece trovare nel fumetto una serie di temi che hanno caratterizzato anche quello che era il mio percorso in psicoterapia, ovvero questo, come dire, senso del dovere molto imperante, la necessità di dover piacere a tutti, la necessità di porre gli altri davanti a se stessi, una sindrome dell’impostore latente: temi che riguardano un sacco di coetanei con cui parlo quotidianamente. Secondo te è un qualcosa di generazionale o è una controindicazione del nascere nella periferia milanese?
 
[Ride] Allora sai che circoscritto alla periferia Milanese non me l’ero mai chiesto, ci devo riflettere…
Tornando seri, il fumetto è ovviamente in parte autobiografico. Il procedimento scelto non è stato quello di vomitare addosso al lettore i miei problemi o le mie storie, che in altri ambienti per altro avrebbe nutrito una curiosità anche un po’ morbosa sull’autore. In questo specifico caso invece l’idea è stata quella di avere un mio universo personale che potesse diventare un personale-universale. Perché questo libro è mio, racconta la mia storia, ma nel momento in cui finisce in mano al lettore è suo. E sono contento, perché in molti si sono ritrovati nel racconto. 
Per quanto riguarda invece la Brianza, la provincia, un passo da Milano, ma non sei Milano… credo tutto ciò con sé una dose di riscatto sociale, che passa anche attraverso la condizione lavorativa, voglio di più, sento di dover fare più, una spinta verso qualcosa che magari è solo finto e patinato, ma è comunque un pezzo del racconto. 
Non avevo mai pensato in  questi termini all’idea della Brianza…
 
Eh, sai, venendo dalla provincia milanese è un argomento che sento abbastanza! .
 
In effetti, io arrivo a Milano e la prima domanda che sento è: “Come-ti-chiami-virgola-che-fai?” Per altro, domanda molto pericolosa. Quasi quanto “Pensi di stare meglio?” [Ridacchia].
 
 
Torno al fumetto: il tuo tratto oscilla tra il dettaglio e lo stilizzato. È un qualcosa che pianifichi già in fase di sceneggiatura o è un flow? Hai già previsto delle parti più dettagliate e delle parti più stilizzate, oppure Come ti senti di disegnare? Quel pezzo di storia?
 
In realtà è pianificato. Nel momento in cui scrivo il soggetto, quindi solamente a livello di scrittura piano piano, prima ancora dello storyboard, cerco di evidenziare quelli quali sono i temi e le emozioni che dovrebbero trasparire. Quindi faccio questo gioco d sottrazione del dettaglio, sottrazione più assoluta: se in quel momento voglio raccontare un personaggio stupito,  l’unica emozione che devo dare è “stupito”, toglierò tutto quello che mi è inutile alle emozioni “stupito”, quindi posso addirittura togliere il contesto.
La stanza in cui si trova è un fumetto, un disegno, quindi può essere nel nulla. Può essere una vignetta bianca e toglierò il naso, le orecchie, i capelli, perché questa volta voglio far vedere lo sguardo, voglio fare vedere la bocca aperta. Per trasmettere invece l’idea di attesa, per fare un esempio, credo funzioni meglio un ambiente denso di dettagli. ma quello è la bellezza del disegno dell’arte. 
Poi c’è il caso e la bellezza del disegno (e dell’arte in generale): Mi ricordo una tavola con un balloon con scritto scusa; avevo tanto tempo da perdere e ho iniziato a scrivere tantissimi “scusa” piccolini invece di uno solo gigante come avevo previsto. l’arte si compiace anche del caso. 
 
La tua opera è la prima in cui ho trovato i meme inseriti nella storia non come un  adesivo messo lì tipo: “Hey, guarda, questo è un meme, guarda qua!”, ma nel flusso del racconto. E visto che i meme oggi sono diventati oramai una parte della nostra comunicazione, l’ho trovato perfetto. Tu ti sei posto il dubbio se tutti i lettori li avrebbero coltri? La tua editor ti ha detto: “Mah, non lo so se la famosa casalinga di Voghera questo lo coglie.”?
 
No, non ci siamo posti il problema perché è stato subito entusiasmo, anche in casa editrice, per questo approccio. Io ero contento e in più mi hanno chiesto una spiegazione che ha soddisfatto la mia editor, Carlotta. E la spiegazione era che io, in questo momento, voglio un po’ anche raccontare il mio analfabetismo emotivo, il mio essere un analfabeta emotivo; il supporto che uso per esprimere emozioni è spesso quello dei meme. Il meme è una reazione immediata, è diretto, ti dà un pugno.
 
Io ho visto nel tuo tratto in generale un’istintività che mi ha fatto tornare in mente (meno male che sei seduto, la sparo grossa) da Tsuge a Pazienza. Dal tuo punto di vista invece, c’è un qualche tipo di contaminazione più o meno inconscia che avverti?
 
Io ho sempre avuto molto paura di diventare come i preraffaeliti, ovvero come chi fa le cose di altri. Quindi la mia tecnica è un po’ quella del guardare più cose possibili, in modo da non ricordarmele. E io rubo da chiunque, ma senza accorgermene, quindi un po’ c’ho l’anima in pace. Mi citi Pazienza e Tsuge, due autori che ho adorato. 
Poi no, la freschezza è una scelta voluta. Cerco di rimanere sempre più vicino al disegno che faccio quando ho la mano libera senza bozza a matita, senza disegno preparatorio. Quindi alla fine la tavola proprio la costruivo, la disegnavo prima tutta e alcune volte quella andava già bene. La provavo e quella funzionava. 
Poi una cosa che mi piace ed mi entusiasma in questo momento, se devo pensare qualcuno che guardo con rispetto e mi piace tantissimo perché mi fa anche sentire coinvolto, perché un mio coetaneo, perché l’ho conosciuto, perché è un amico e io adoro quello che fa, beh, quel qualcosa e quel qualcuno è Simone Rastelli (in arte Juta, che ha pubblicato di recente Gatto Pernucci per Coconino). Abbiamo in comunque questo tratto super istintivo. Pecco di hubris, ma mi fa piacere essere parte di una scena, sentire che stiamo costruendo qualcosa, pur col mio tratto “tremolante”, come è stato definito. 
 
 
L’ultima domanda riguarda la quarta di copertina, ovvero come hai convinto Minimum fax a chiudere il tuo libro con un… non saprei come definirlo… un raduno di cazzetti che sorridono al lettore.
 
Bisogna dare il merito a Minimum Fax di averci creduto molto nel mio fumetto e di averlo anche spinto molto. In realtà nasce da una piccola gag di  fumettisti che commentano il fumetto: in tanti fumetti servirebbe il disclaimer per avvisare il lettore che l’autore sta per raccontargli i cazzi propri. E l’idea è stata quella: cavolo, ci avrei fatto la bandina gialli con scritto “Guarda, l’auotre sta per darti un’ora di cazzi suoi”. Non abbiamo fatto la bandina, così ho deciso di metterli in quarta, così, arroganti Certo, disegnati nella maniera più dolcina possibile, però… cazzi. 
 
Mi sembra anche un ottimo manifesto programmatico dell’atteggiamento irriverente che Minimum Fax infonde in questa collana. Un dettaglio, ma che lascia trasparire molto. 
 
Sono contento, perché la copertina è stata studiata con Raffaele Lele Sorrentino, un grandissimo a cui mando un bacio. L’idea era quella di fissare in copertina il tema che si ripete, e poi avere in quarta una sorta di spoiler. Tenendo in mano il libro puoi capire di cosa parla il volume, girandolo invece capisci dove si va a parare. Un’altra faccia della medaglia, un po’ brutale, ma onesta.
 
Perfetto, credo che colga perfettamente anche le intenzioni del libro, quindi non aspettarti una Bibbia, non voglio insegnarti come stare meglio. Questa cosa riguarda me.
 
L’intento è sempre quello di rivolgersi al pubblico, ma non per vomitagli addosso i miei problemi e stop. Certo sono cazzi miei, ma alla fine sono cazzi di tutti, o almeno di molti. Mal comune mezzo gaudio, no? In qualche modo sapere che non sono solo io alleggerisce. In fondo il senso di fare terapia è un po’ quello. 
 
Sapere che non siamo i soli a stare male, ma siamo in compagnia di buona parte della provincia milanese…
 
[Ride] Probabilmente tutta!
 


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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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