Avete mai sognato di essere un’ombra? Magari, che so, proprio quella che segue Peter Pan da una parte all’altra, interessata a scoprire quanto sia bello e unico il mondo. Che sogno, quello, e che grande viaggio sarebbe essere il personaggio ideato da James Berrie. Ecco che, però, Ewoud Van der Werf ci trasporta invece in una cittadina misteriosa, nella vita di una persona intenta a scoprirsi e a definire al meglio il suo futuro. È un viaggio dentro, fuori e attorno a noi, un viaggio che accompagna e conduce alla meraviglia, per poi dimostrarsi inedito e particolareggiato. È un respiro che serve, all’industria, talvolta non molto convinta di dare al mondo la bellezza che merita. In SCHiM questo genere di bellezza, però, è centrale. Lo si comprende sin dal primo avvio, quando l’avventura della piccola ombra che s’impersona nel corso dell’esperienza s’incastra ovunque, diventando un punto fermo da tenere ben saldo, stretto a sé. È quello che ho fatto io, mentre saltavo allegramente da un’esistenza all’altra, con il sogno di vedere quanto fosse bello comprendere molto delle persone con cui mi connettevo. Assieme a Death Stranding e altrettante produzioni di questo tenore, SCHiM ha il grande merito di mostrare l’umanità per quella che è davvero, dando valore all’esistenza di chiunque. Mentre il mio alter ego si muove l’ombra, saltando da una vita all’altra, ho avvertito un’emozione primordiale venire fuori, quella dello stupore, la stessa che ho provato quando, anni fa, giocai a Persona 5.

Ora, va detto che stiamo parlando di due videogiochi ben diversi. Se da una parte Persona 5 arriva a sforare addirittura le centocinquanta ore di gioco, dall’altra c’è una produzione meno assoggettata a quel monte ore che rende, per qualcuno, un videogioco meritevole di essere giocato. È la convinzione, dura a morire, che più c’è, più è possibile fare cose, viaggiare, scoprire e vivere. Se solo si capisse cosa viene raccontato nel viaggio, questi problemi non ci sarebbero. Meglio però se mi fermo qui, prima di causare una guerra termonucleare, con Clod che ha già la mazza in mano perché ho impiegato parecchio tempo per arrivare a scrivere questa recensione. Già lo sento maledirmi, in realtà, a più riprese.

UN RACCONTO NEL RACCONTO

In SCHiM si vive l’esistenza di una persona, come accennavo prima. L’infanzia, le elementari, le medie e il liceo, e dopo l’università. E dopo? Dopo cosa c’è, in realtà, tra millemila impegni? Altri impegni. Si cresce, si lavora e si comprende che la vita è davvero breve. Alla fine della fiera, mentre si scoprono le vicissitudini di questo silenzioso personaggio, si comprende di essere molto simile a quest’ultimo sotto qualunque superficie. Lo si prova nel momento in cui tutto quanto è sottile quanto la vita stessa, sfilacciata e bistrattata, unita tuttavia da un filo conduttore: il ricordo di chi si era tempo fa.

Questo canovaccio narrativo, reso al suo meglio grazie a un sontuoso lavoro di scrittura da parte del team di sviluppo, rende SCHiM una produzione commovente, che racconta alla generazione di oggi quanto sia difficile riuscire a percorrere una strada senza impazzire. È lo stesso che accade a me sovente, quando provo e riprovo a comprendere che l’unica soluzione, di fronte a certe scelte, è tentare di migliorare la mia stessa esistenza. Non è una strada facile, ma l’ho fatto da un anno a questa parte. Ciò però non interessa a nessuno, perché l’elemento importante, che è un po’ il sottotesto della produzione di Ewoud Van der Werf, è cercare di vivere con serenità, di sostentarsi e provare a essere felice, per quanto è complesso. Quando l’ho concluso, ormai qualche giorno fa, mi sono interrogato parecchio su cosa quell’ombra voglia essere davvero.

Ho provato a ragionarci a lungo, spingendomi a riflessioni tali che hanno condotto, alla fine, nel citare un altro sentimento umano, quello dell’empatia. Quanto è sano e utile mettersi nei panni dell’altro, anche per comprendere sé stessi? Per quanto complesso, lo ammetto, cerco di farlo ogni volta che posso. Funziona, come peraltro ha dimostrato il game design di SCHiM.

IL META-GAME DESIGN DI SCHiM

Pur usando una visuale fissa sull’obiettivo, ovvero l’ombra che si muove da una parte all’altra degli scenari, la produzione si presenta in modo ottimo. L’obiettivo è saltare da un’ombra all’altra, muovendosi per gli scenari con lo scopo di risolvere vari enigmi mai effettivamente troppo complessi. È un gesto che si compirà sovente, ma è il bello del titolo, portato al suo massimo da un game design che si focalizza essenzialmente sul raccontare quel genere di emozioni.

Questo è rappresentato attraverso l’approccio platform scelto per l’occasione. L’ombra può percorrere strade, biciclette e pozze d’acqua, trovandosi talvolta davanti delle soluzioni cui pensare attentamente, in cui è necessario capire in che modo muoversi, avanzando piano piano, tra un livello e l’altro. Non si tratta di nulla di troppo arzigogolato: il game design si racconta infatti attraverso dei gesti semplici che avvengono tra il giocatore e il livello che si sta scoprendo in quel determinato momento. A scandire ulteriormente la freschezza e la volontà di essere un videogioco narrativo, pur presentando un gameplay tanto semplice quanto ben realizzato, è l’affascinante art design utilizzato per l’occasione.

È tutto finemente disegnato a mano, con ombre e luci sempre ben impostate, e colori mai uguali, concentrati a fare capire che ogni momento della vita è diverso. Ogni momento ha colori diversi. L’ombra, però, è sempre uguale. È la figura fanciullesca di cui avevamo bisogno.

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