In qualche modo, Il talento di Mr. Ripley di Patricia Highsmith appartiene anche a un’altra epoca: uscito nel 1955, il romanzo parlava a una società diversa dalla nostra. Ma risultava già vagamente inquietante. Anche, ma non solo, per come nascondeva il mostro dentro un ragazzo che ha poco più di vent’anni ma, che la vita o l’indole (o entrambe) trasformano in un assassino. E con modernità spiazzante, per un’autrice nata all’inizio degli anni Venti che pubblicava, nemmeno trentacinquenne, il primo dei cinque romanzi dedicati al suo amorale ladro d’identità.

Il cinema non perse tempo a portare sul grande schermo la storia di Tom Ripley, che arriva in Italia e ruba praticamente la vita del ricco Dickie Greenleaf dopo averlo ucciso con un remo durante una gita in barca. Già nel 1960 usciva Plein soleil, in cui era Alain Delon a nascondere l’efferatezza dietro la bellezza di ghiaccio.

La generazione Y, però, non può non ricordare quello che è già un cult: a fine 1999 arrivava in sala Il talento di Mr. Ripley di Anthony Minghella. Il regista era reduce dal successo del Paziente inglese, che due anni e mezzo prima gli aveva portato l’Oscar per la migliore regia. Le quattro star – Matt Damon, Gwyneth Paltrow, Jude Law e Cate Blanchett – erano in ascesa, tutte fresche di Oscar o di nomination; Law la ottenne proprio per il ruolo di Dickie, vincendo anche il BAFTA; ma tutti e quattro furono scelti da Minghella prima che il loro successo esplodesse. Nonostante qualche stereotipo di troppo sull’italianità, il risultato furono cinque nomination all’Oscar (mancò quella al miglior film, ingiustamente), il National Board of Review per la miglior regia a Minghella, quasi 129 milioni di dollari come incasso globale e lo status di must della cinematografia USA a cavallo fra gli anni Novanta e il nuovo millennio: un mix di ossessione, sexiness e giallo probabilmente rimasto ineguagliato.

È difficile, quindi, non pensare a Minghella guardando il nuovo adattamento del romanzo della Highsmith scritto e diretto da Steven Zaillian. Otto episodi in bilico fra un bianco e nero di intossicante modernità e un’ambiguità in cui crogiolarsi, come al sole della costa campana che però, in questo nuovo Ripley, resta vagamente gelido.

Minghella aveva esplicitato pulsioni che, negli anni Cinquanta, la Highsmith poteva solo suggerire. In primis l’omosessualità di Tom Ripley, che subisce il fascino di Dickie fino ad ammazzarlo perché non ne sopporta il rifiuto. Zaillian invece ha più tempo (ogni episodio balla fra i 45 e i 75 minuti) e meno necessità di sintesi: non altera la storia del romanzo se non in qualche punto, e ne conserva l’allusività e l’ambivalenza.

Forse, la vera licenza di Ripley è il suo protagonista, sontuosamente interpretato da Andrew Scott. Qui Tom Ripley, come del resto Dickie Greenleaf che ha il volto di Johnny Flynn, sembra più vicino ai quaranta che ai vent’anni: è più maturo e calcola con più freddezza.

Per il resto, come la Highsmith, Steven Zaillian lascia sottese le implicazioni sentimentali. Se Minghella le amplificava esplicitandole per lo spettatore moderno, Zaillian le smorza (quasi) fino a eliminarle: il Ripley di Andrew Scott è attratto dai soldi e dalla vita di Dickie. Anche da lui?

La serie, disponibile da poco su Netflix, si concede un’altra licenza rispetto alla Highsmith: segue Minghella e districa i nodi del rapporto fra Dickie e Marge (qui Dakota Fanning) rendendoli palesemente fidanzati. Le tensioni irrisolte del romanzo originale, che suggerisce un’amicizia poco chiara in cui l’amore è monodirezionale (quello di Marge per Dickie), lasciano il posto a una frequentazione di routine. Così, le dinamiche più interessanti di questa sorta di triangolo non amoroso restano quelle che hanno Ripley come denominatore comune: l’intuito femminile di Marge lo smaschera prima del previsto, Dickie gli concede il beneficio del dubbio.

Quando diventa evidente che Ripley non può, o non vuole, mantenere la promessa fatta al padre di Dickie (convincere il figlio a tornare negli Stati Uniti) e lo stesso Dickie inizia a pensarla come Marge, l’omicidio è pensato ed eseguito con allucinato distacco: una barca al largo di Sanremo è lo scenario più lontano dagli sguardi.

Poi Ripley lascia la costiera e si trasferisce a Roma usando i soldi, gli abiti e il passaporto manomesso di Dickie. Ma non c’è pace: il delitto perfetto non esiste e le crepe, in un piano così ambizioso e spietato, si aprono presto. La prima ha il volto di Freddie Miles, una delle ricche amicizie borghesi di Dickie che vuole vederci troppo chiaro per i gusti di Tom: lo trova nel suo nuovo appartamento romano e inizia a fare troppe domande.

Così, senza scomporsi troppo, Tom deve continuare a uccidere, a mentire e a guardarsi le spalle. Fino a capire che, forse, è ora di tornare ad essere Ripley, se vuole restare libero.

Le bellezze artistiche e paesaggistiche della costiera, di Roma, di Palermo e di Venezia hanno un fascino freddo e marmoreo: il bianco e nero di Robert Elswit (già Oscar per la fotografia de Il petroliere) è incredibilmente moderno, lucido, e scolpisce i visi e le forme con luci e ombre restituendo un mélange di noir contemporaneo e thriller giustamente lontanissimo dall’effetto vacanze-in-Italia.

Zaillian gestisce i tempi con meticolosa abilità. Anche nelle frenate, come quando allunga silenziosamente i minuti in cui Ripley deve fare i conti, in una piccola baia della costa ligure, con le conseguenze dell’omicidio di Dickie. O nei momenti apparentemente morti in cui, sulle rampe delle scale del lussuoso palazzo romano, ospiti più o meno desiderati si alternano usando un ascensore che ha troppa tendenza a guastarsi: quando si mette in moto, il suo suono fa più paura del sangue.

Le scale tornano a più riprese come leitmotiv visivo del film. Nella casa di Roma che Ripley prende in affitto, ma anche ad Atrani, il paesino campano in cui vivono Dickie e Marge: per arrivare alla villa di Dickie le scale da salire sembrano infinite e faticose. Un rimando alla scalata sociale che Ripley tenta disperatamente?

Altre metafore rasentano l’eccesso, come quella con Caravaggio e la sua sanguigna indole da omicida, che nell’ultima puntata diventa pendant della situazione del protagonista ma che serpeggia in tutta la serie, con Tom che scopre una passione più che turistica per le opere del pittore. Eppure, in questo splendido affresco in cui convivono conflitto di classe, gelosia e fortuna sfacciata, finisce per sembrare un peccato veniale.

È un Andrew Scott di mostruosa bravura a sottrarre più che aggiungere, nel restituire l’instabilità repressa dell’antieroe del titolo: dopo un primo grande ruolo da protagonista al cinema (Estranei, per cui la nomination al Golden Globe è stata decisamente troppo poco) arrivato a quasi 47 anni, con Ripley si conferma uno dei più grandi attori della sua generazione. Lo sguardo vitreo e il sorriso elusivo, a tratti enigmatico, sono specchio di un’amoralità egoista e – episodio dopo episodio – sempre meno prevedibile.



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