Plumbeo e solenne, arriva in prima mondiale a San Sebastián come uno schiaffo: Un silence di Joachim Lafosse sbarca al festival ed è subito chiaro che è uno dei migliori film del concorso.

Ancora una volta, il regista racconta una tragedia domestica. Che si consuma in una lussuosa villa d’epoca, circondata da un giardino in cui la natura pare immobile. E di nuovo, la famiglia è lacerata dalle conseguenze di crimini sepolti ma non dimenticati. Dopo Proprietà privata (2006) e À perdre la raison (2012), Lafosse torna al peso del passato che porta a un’escalation familiare improvvisa e violenta.

Il silenzio del titolo è quello che per troppi anni Astrid Schaar (Emmanuelle Devos) ha scelto di non rompere. Suo marito François Schaar (Daniel Auteuil) è un avvocato di grido che sta lavorando a un caso di pedofilia e omicidio. La sceneggiatura, scritta dal regista con Chloé Duponchelle, Paul Ismael e Thomas van Zuylen, non svela molto. Ma, a giudicare dall’insistenza con cui la stampa assedia la casa degli Schaar, è chiaro che i fatti scottano.

Liberamente ispirato a una storia vera (quella dell’avvocato Victor Hissel, che fu il legale dei genitori delle due bimbe vittime del mostro di Marcinelle; non aggiungiamo altro per evitare spoiler), Un silence ne espande però il dietro le quinte, romanzando il contesto. La figlia maggiore della coppia ha ormai lasciato il nido. Ma il più giovane Raphaël (Matthieu Galloux) è un teenager insofferente alle regole, silenzioso in modo ostile. Quando il vaso di Pandora si scoperchia, il dramma deflagra con furia inattesa.

Joachim Lafosse apre e chiude il film sullo sguardo di Astrid senza mai buttarle addosso il carico della responsabilità. Il silenzio non ne fa una complice. E la Devos regge il gioco con un camaleontismo attoriale che rende la situazione, sua e della sua famiglia, ancora più alienante. A farle da contraltare, la monumentale indecifrabilità di Daniel Auteuil, sempre più cupo e – man mano che la verità viene a galla – simile a un gargoyle: il suo comando interpretativo resta impressionante. Mentre il giovane Matthieu Galloux trasuda un disagio vagamente inquietante.

L’inferno borghese in cui da venticinque anni vivono gli Schaar è costruito con parchi indizi e il geometrismo di una regia che tende all’implicito: fissa l’immobilismo fisico dei suoi personaggi rimandando a quello mentale, che ha congelato la famiglia fra le mura del non detto.

Lafosse costruisce una suspense strisciante dosando le informazioni e dilatando i silenzi fra le ombre di una casa in cui la luce (dentro e fuor di metafora) sembra filtrare con difficoltà. E il dubbio che tortura Astrid schiacciandola è reso evidente quando la macchina da presa la inquadra di tre quarti mentre è al volante, nell’incipit che dà il via al flash-back o nella scena in cui discute con Raphaël della sua negligenza scolastica. Il regista opta per una messa in scena terrea, glaciale ma inaspettatamente magnetica, ricordandoci che siamo solo spettatori quando ci lascia a fare anticamera mentre i fatti avvengono nella stanza accanto.  

Lo status sociale e il benessere vanno difesi. François Schaar lo sa fin troppo bene. Il suo primo cliente è probabilmente lui stesso: è bravissimo a farla franca, lo ricorda anche suo figlio. Tant’è che la vera vittima degli abusi, in Un silence, non è mai mostrata. Resta fuori campo, una voce arrabbiata che annaspa, silenziata troppo a lungo.

E l’epilogo in tribunale, interamente affidato al non verbale di François, Astrid e Raphaël, diventa quasi un monito raggelante: come i sentimenti, la verità può essere pericolosamente fluida.



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