“Pink, it’s my new obsession. Pink, it’s not even a question” cantavano gli Aerosmith, grazie a un potente atto di prescienza, nel lontano 1997. Oggi, anno di grazia 2023, il mondo veste di rosa da mesi e non solo il mercoledì. Artefice di questo sorprendente entusiasmo per un colore tradizionalmente associato a quello che in modo avvilente, ma rivelatorio delle stato delle cose, viene definito il sesso debole, è Barbie, diretto e co-sceneggiato da Greta Gerwig. Il film è riuscito – tra una milionata di incassi e l’altra – a riscattare e legittimare un colore che convenzionalmente rimanda a tutto ciò che è frivolo, delicato, infantile, mite, lezioso, innocuo, in una parola: femminile, e a tutto quello che la società sessista ha preteso circoscrivesse, esaurendole, ambizioni e potenzialità delle donne.
L’opening del film, per quanto si serva di una citazione tra le più abusate anche in contesti extra cinematografici, assolve al compito di instradare il pubblico sulla via giusta perché Gerwig sa che per riuscire, un film ambizioso come il suo deve portare in sala anche quello che normalmente non verrebbe mai profilato come lo spettatore ideale, e questo spettatore va subito munito di bussola, cartina e brochure informativa su cui sono state evidenziate le parole chiave “patriarcato”, “femminismo” “mascolinità tossica”, ma in rosa per rassicurare che è tutto un gioco. Forse.
La bambola della Mattel è simbolo dell’infanzia di bambine di ieri e oggi, ed è uno dei marchi più riconosciuti e riconoscibili al mondo, ma qui non stiamo parlando solo di cinema quale settima arte, ma di un film prodotto da multinazionale con l’obiettivo di realizzare un successo di botteghino tale da far sponda a quello del giocattolo venduto nei negozi in ogni angolo del Pianeta: era dunque imperativo mettere in poltrona anche tutte quelle persone che istintivamente non immagineresti in fila al botteghino per vedere Barbie.
Il marketing ha avuto, naturalmente, un ruolo fondamentale nel creare l’hype, ma la macchina commerciale è riuscita ad andare ben oltre permettendo a Barbie di superare la nozione di film-evento in un momento in cui tra cinecomics, star wars vari, sequel, riesumazione di vecchie glorie, il senso stesso della parola ha perso di reale significato visto che ogni anno cinematografico conta dai tre ai quattro eventi: lo stesso 2023 saluta l’arrivo in sala di Indiana Jones 5, Napoleon, Mission Impossible Dead Reckoning e Oppenheimer, per esempio.
Barbie rischiava dunque di essere dicotomicamente un evento come gli altri, mentre invece è riuscita a diventare un San Diego Comic Con per ogni cinema, per chiunque, permettendo a tutti l’esperienza del cosplay grazie a un semplice tocco di rosa, e senza neanche dimostrare di essere nerd della materia. Il film ha avuto dalla sua il potere di suscitare non solo interesse, ma anche polemiche preventive, regalando così a tutti l’opportunità di essere sul pezzo e di dire la propria soprattutto su questioni femminili: occasione irrinunciabile.
Il momento storico ha per conto suo giocato a favore da un punto di vista sociale e politico: dal 2022 il Cinema, grazie anche ai numeri formidabili di Top Gun: Maverick e Avatar la Via dell’Acqua, può dire di essersi lasciato alle spalle la pandemia – le persone sono disposte a sciamare verso le sale preferendole allo streaming là dove viene data loro una motivazione – e dai millennials in giù anche i giovani uomini e i ragazzi si sentono coinvolti, in modo più o meno attivo, nell’essere parte di un cambiamento all’interno di una società che si vuole più equa, inclusiva, attenta, femminista.
Barbie ha promesso gioco, ironia, altissimi valori produttivi, Margot Robbie e Ryan Gosling diretti da una cineasta di grande talento a tutti; femminismo, ironia, satira sociale a tanti, materiale per schiumare via social contro le femministe ai restanti tristi individui. Tutte promesse mantenute: che si sia entrati per divertirsi, riflettere sugli spunti offerti dal film, sentirsi parte di un evento, crogiolarsi nelle critiche, Barbie non ha deluso nessuno, soprattutto quelli che morivano dalla voglia di avere qualsiasi appiglio per lanciarsi contro il femminismo, il metoo e la presunta caccia alle streghe contro Spacey.
Il marketing può infatti fare tanto, tantissimo, ma alla fine sarà sempre il passaparola del pubblico a permettere a un film di entrare nel club del miliardo di dollari. Ma ora è giunto il momento di avventurarsi in Barbieland. Da qui in avanti SPOILER.
Barbieland è il regno-emanazione della fantasia dalle bambine, è quel luogo fantastico in cui si rifugia ogni ragazzina certa di poter vivere attraverso il suo avatar-barbie un’esistenza in cui essere, al meglio, tutto ciò che si desidera, mai toccate dalla bruttezza della realtà, che è particolarmente triviale soprattutto per le donne. La sequenza iniziale spiega quello che spesso viene sottostimato dagli uomini e dalle nuove generazioni cresciute in una società che sta affrontando apertamente, seppure obtorto collo, il problema del sessismo endemico.
La barbie ha fatto la sua comparsa nella cameretta delle bimbe in un mondo di giochi che stimolavano il lato materno perché la cura della famiglia e della casa era considerata la loro naturale destinazione d’uso. Ecco dunque apparire una bambola adulta, protagonista assoluta della propria vita. Barbie aveva tutto, e per sé stessa. Il camper, la decappottabile, la casa di città e quella di campagna, uno stuolo infinito di abiti e accessori e una versione per ogni categoria professionale: Barbie era dottoressa, cantate, surfista, esploratrice, manager, veterinaria. E tutto senza dover rendere conto di niente a nessuno, inclusi genitori o fidanzato. Ken era una figura talmente marginale da non meritare nemmeno la dignità dei capelli in luogo dei quali aveva un caschetto di plastica sagomato.
In un mondo di giochi in cui le bambine restavano infantilizzate o venivano proiettate verso il futuro ruolo di madre e donna di casa, Barbie rappresentava autonomia, indipendenza, benessere. La problematicità era, e resta, quella di avere un modello bianco che realizza sogni borghesi, anche se nel tempo Mattel ha proposto versioni che permettessero a qualsiasi bambina di sentirsi rappresentata giocando e fantasticando attraverso una Barbie che le assomigliasse senza riproporre un ideale estetico innaturale. L’incipit del film ci mostra proprio questa dirompente novità seguita dall’evoluzione del giocattolo che oggi permette un più immediato e sano processo di immedesimazione. Naturalmente Mattel è una multinazionale, e sarebbe ingenuo pensare che un simile mutamento non sia avvenuto calcolatrice alla mano, ed è bene tenere questo a mente anche per una corretta valutazione artistica del film. Ma di questo parlerò più avanti.
Torniamo a Barbieland in cui tutto è perfetto e ogni giorno è il più perfetto possibile. Qui Barbie Stereotipo (Margot Robbie) trascorre la sua giornata insieme alle altre Barbie che sono costituzionaliste, giardiniere, avvocate, dottoresse, operaie cantoniere, tutte meravigliose, sorridenti, realizzate, in costante adorazione l’una dell’altra. I Ken sono poco più che figuranti, ballerini di fila, bassa manovalanza della vita da sogno, e trascorrono la loro esistenza in spiaggia, incuranti della loro irrilevanza. Solo un Ken fa eccezione. Il Ken interpretato da Ryan Gosling soffre nell’essere privo di scopo e nell’avere motivo di esistere solo quando Barbie Stereotipo poggia gli occhi su di lui.
Tra balletti, party e assegnazione di premi nobel, tutto resta meravigliosamente identico, finché pensieri di morte non iniziano ad affacciarsi alla mente di Barbie Stereotipo che inizia a sperimentare l’insorgenza della cellulite e – orrore – vede i suoi piedi perdere la loro peculiarità: i talloni di Stereotipo poggiano a terra, privati così dell’innaturale postura eternamente in punta di piedi, eternamente predisposta ai tacchi alti.
Sarah Greenwood, production designer, e Katie Spencer, set decorator, realizzano un mondo realisticamente finto, un’uncanny valley forgiata in un vibrante rosa, una dimensione plasticosamente accattivante che ha nella sua ideale irrealtà il grimaldello di accesso alla fantasia di tutte le bimbe: insomma, Barbieland è la perfetta realizzazione di quello che gli Aqua hanno esaustivamente espresso in rima baciata: “Life in plastic, it’s fantastic“.
In questo mondo di luminosa perfezione, Gerwig mette in scena qualcosa che va ben oltre il matriarcato. Le barbie non hanno fidanzati, né figli, quindi nessuna discendenza, nessuna linea ereditaria a cui tramandare alcunché perché la perfezione è un eterno tempo presente: quello che ci mostra la regista è quindi un luogo di divinità dove le barbie sono simili a dee, eterne, perfette, giovani, prive di bisogni e desideri, e solo incidentalmente dominanti sui trascurabili Ken, perché si può desiderare di dominare solo su esseri della cui esistenza si prende atto, la dinamica di potere si innesca quando c’è una volontà di controllo e sottomissione nei confronti di qualcuno che impensierisce, spaventa, che ha qualcosa che si vuole sottrarre per il proprio esclusivo vantaggio.
Barbie, persa la sua perfezione, è dunque disperata, anche se non ha parole per esprimere il concetto, giacché il linguaggio è pur sempre un’approssimazione della nostra esistenza e fino a quel momento la vita a Barbieland era stata favolistica. Con l’aiuto della Barbie stramba scopre che qualcuno sta giocando con lei in un modo non previsto, ovvero trasferendo pensieri di morte e depressione sulla sua bambola. Stereotipo deve quindi avventurarsi nel mondo reale per trovare la bimba, sanare la frattura e tornare alla sua vita idilliaca. Tutte cose che inevitabilmente accadono, anche se in realtà non è stata una bambina a provocare la caduta dalla Grazia, ma la mamma Gloria (America Ferrera) che in età adulta vede in Barbie tutto ciò che lei non è – spensierata, realizzata, esteticamente perfetta – e inizia a pensare a versioni della bambola che incarnino il suo stato d’animo.
Ed è tragicamente ironico che i pensieri suicidi vengano implicitamente posti sullo stesso livello d’importanza della cellulite a sottolineare come un bisogno indotto – liberarsi dall'”inestetismo” – porti ad ansia, depressione, stigma sociale e senso di inadeguatezza per non riuscire a raggiungere uno standard estetico imposto dal business della cosmesi e supportato da una società che controllando il corpo delle donne, controlla le donne stesse.
Con riluttanza, infine, Barbie decide di intraprendere il viaggio accompagnata da Ken-Gosling che finalmente intravede la possibilità di essere rilevante nella vita della sua non-fidanzata.
L’arrivo nel mondo reale presenta tutte le sfide che ci si può aspettare. In un turbinio di gag e battute esilaranti, Barbie realizza in modo traumatico che le donne nel mondo reale sono discriminate e oggettificate, mentre specularmente Ken scopre qualcosa di bellissimo e meraviglioso: il patriarcato, grazie al quale nel mondo reale lui non è banalmente un Ken, ma è un maschio e solo per questo ha diritto di prelazione su tutto il meglio che la vita può offrire, con il bonus di poterlo avere a scapito delle donne. Camminare nelle strade del mondo reale per Ken significa essere considerato un rispettabile membro della comunità per il solo fatto di esistere e respirare in quanto maschio. Da qui, la sua idea di tornare a Barbieland per istruire e introdurre gli altri Ken a questa strepitosa invenzione: amici, è arrivato il patriarcato!
Barbie, dal canto suo, deve vedersela con il consiglio di amministrazione della Mattel, con le bambine della generazione Z – già estremamente consapevoli della società sessista e razzista in cui stanno crescendo – che in Barbie non vedono più un modello di libertà e benessere come era avvenuto per le loro madri, ma un mezzo di oppressione che offre sogni livellati su un modello capitalistico, bianco e occidentale. La presa di coscienza di tutto questo per Barbie è traumatica e il suo sconforto è destinato a tramutarsi in aperta disperazione quando al suo ritorno a Barbieland scopre che in sua assenza Ken-Gosling ha instaurato il patriarcato: i ken dominano come nelle più comicamente stereotipate fantasie da incel, con le barbie ridotte al loro servizio.
La storyline di Ken è forse più interessante, meno scontata rispetto al viaggio dell’eroe di Barbie Stereotipo, e uno strepitoso Gosling ruba la scena trasmettendo in modo spumeggiante tutto il capriccioso dramma esistenziale del maschio che muore se il mondo non parla di lui a lui. Ma è proprio qui che la presunta agenda femminista di Gerwig mette a segno il suo colpo migliore: il modo più efficace di sensibilizzare alle istanze femministe è mostrare cos’è il patriarcato, smitizzandolo, evidenziando quanto sia per altro grottesco e ridicolo e come spesso non si riesca a capire “cos’altro pretendono ancora di più le donne” perché i propri privilegi, tra cui quello banalissimo (per un uomo) di passeggiare per strada da maschio, siano così difficili da riconoscere e decodificare.
Si dice che il pesce non sa cosa sia l’acqua, e il patriarcato è proprio questo: lo respiri, ne sei immerso e imbevuto, ma non ne hai consapevolezza perché lo fraintendi per qualcosa che è tutt’uno con te.
A questo punto arriva la parte più problematica del film, le barbie architettano un piano per riprendersi la loro Barbieland e purtroppo il modo scelto è il più mortificante che potesse essere concepito: usano le armi seduttive per aizzare i ken gli uni verso gli altri. Un film come questo avrebbe potuto contribuire a sradicare, a costo zero, un pervicace stereotipo di genere, quello della donna che non potendo nulla contro l’intelligenza di un uomo può solo utilizzare l’arma della seduzione.
Una delle gabbie narrative in cui viene spesso rinchiuso il personaggio femminile è proprio l’uso dell’oldest trick in the book come unica risorsa a propria disposizione, alimentando così la contrapposizione tra intelletto a esclusivo appannaggio maschile, e bellezza quale unico reale mezzo di avanzamento per una donna, nella finzione come nella vita. Gerwig avrebbe dovuto prestare molta più attenzione a come strategizzare la riscossa femminile, tanto più che le protagoniste non devono confrontarsi con dei machiavellici geni del male, ma solo con una manica di poveretti a cui sarebbe stato sufficiente far credere che di lì a breve Musk avrebbe twittato il nuovo modello di Tesla per tenerli occupati, dimentichi della votazione imminente.
Nonostante questo, devo dire che la parte immediatamente precedente è un piccolo capolavoro di derisione e ironia: le barbie abbindolano i ken dando loro quello che davvero desiderano più di ogni altra cosa al mondo, più della partita, della birra, dell’auto sportiva, del sesso: il mansplaining.
Tutto è bene quel che finisce bene e un finale natalizio, indulgente, democristiano in cui tutti sotto sotto sono buoni, anche i cattivi, e tutti hanno diritto di parola e rappresentazione, è un finale la cui chiave di lettura è nel monologo di America Ferrera.
Alle donne viene chiesto di essere l’impossibile. A ogni donna viene chiesto di essere esteticamente seducente, ma priva di consapevolezza della propria sessualità, di essere indipendente, ma di chiedere sempre il permesso, di essere un modello vincente restando defilata, di saper fare tutto ma senza per questo pretendere un riconoscimento, di essere brava tanto quanto un uomo, ma senza minare il ruolo degli uomini, di essere sempre a disposizione senza apparire sottomessa, di vivere per appagare l’occhio maschile coltivando però un buon livello di autostima. Di vivere accontentando tutti, insomma, tenendo in sé tutte le contraddizioni schizofreniche e mortificanti che questo comporta, ma conservando un delicato e leggiadro equilibrio. Sempre in punta di piedi, ma senza accusare stanchezza.
In fondo, è esattamente quello che è stato chiesto a Gerwig: un film che mettesse alla berlina la Mattel quale corporation guidata da una banda di biechi capitalisti interessati a manipolare i sogni d’infanzia per mero calcolo economico, ma al tempo stesso è la Mattel che produce e finanzia e quindi alla fin fine gli uomini del consiglio di amministrazione devono sembrare più imbranati che cattivi. Gerwig ha dovuto firmare un film femminista che lo fosse in modo intelligente, graffiante e rivelatore, senza però alienare la comprensione di chi ha bisogno del bignamino del femminismo. Una pellicola che divertisse omaggiando un giocattolo amato, mettendone in luce però le ineludibili criticità. Barbie doveva arrivare a tutti, senza annoiare chi è già avanti nel proprio percorso di crescita ed emancipazione. Il cast doveva essere stellare, ma anche inclusivo, il registro ironico e leggero, ma drammatico e toccante al momento giusto.
È un film che deve vendere giocattoli, far fruttare un product placement da far invidia a quello di tutti i film di Bond messi insieme, andando al tempo stesso contro l’alleato più infido e violento del patriarcato: il capitalismo. Insomma Barbie doveva accontentare ed essere di rottura. Emblema di questi due poli magnetici da far avvicinare a dispetto delle leggi della fisica è stato il dover rendere credibile la crisi esistenziale di una con le fattezze di Margot Robbie che, al pari della controparte di plastica, rappresenta esattamente l’ideale di bellezza a cui la società tributa ogni omaggio e riserva ogni onore.
Gerwig, coadiuvata dal suo compagno e co-sceneggiatore Baumabach, sa che a queste condizioni la sua protagonista rischiava di risultare non credibile ed è per questo che affida alla presenza di Ann Roth (la signora sulla panchina) il momento più delicato ed emozionante del film: è solo liberando Barbie Stereotipo dalla prigione dell’eterna giovinezza quale unico modo per essere Bella, umanamente bella, che la protagonista può essere libera di autodeterminarsi come poi farà a fine film, scegliendo di avere una vagina a simboleggiare la conquista definitiva: quella di decidere della propria sessualità.
Alla perfezione canonica di Barbie viene quindi sapientemente e ruffianamente affiancata Gloria che rivendica nel finale il sacrosanto diritto alla normalità perché la vera parità passa per l’eccellenza, ma il punto d’arrivo è la normalità: una donna deve sentirsi padrona del proprio mondo e di sé stessa, semplicemente nell’atto di camminare per strada, senza conquistare il diritto di esistere vincendo un nobel, sbarcando sulla Luna o producendosi in una qualche mirabolante impresa.
Barbie è un film che sa farsi voler bene, intanto perché racconta una storia accattivante portata sullo schermo da due attori magnificamente in parte, diretti da una regista con un talento artistico spiccato e una voce personale, ma anche perché il film è consapevole di potersi permettere un grande lusso: quello di deludere le persone giuste, ovvero tutt* quell* che non hanno bisogno di Barbie e che sono già anni luce avanti nella comprensione dei femminismi: loro magari non hanno nulla da prendere, ma tante altre persone – giovani o meno – che verranno raggiunte dalla storia e stimolate a proseguirla nel mondo reale, sì.
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