Ormai è un gag ricorrente quella dei consigli di lettura in ritardo del mese. E un po’ sì, ci giochiamo su questa cosa. Ma un po’ dipende anche dal fatto che ci teniamo a leggere quello che vi segnaliamo, prima di segnalarvelo: bravi tutti a dare consigli dai comunicati stampa. Però sì, insomma, anche questo mese sono andato lungo. Domani smetto, promesso.
Pop ポップ
Quando si parla di argomenti nerd il rischio è sempre quello di vederli trattati con superficialità, o quanto meno senza la profondità che l’appassionato si aspetta. Con Pop ポップ di Matt Alt questo pericolo è pienamente scongiurato e lo si capisce fin da subito, dall’introduzione di Vincenzo Filosa, uno che col Giappone ha un rapporto molto stretto e diretto. Lo stesso si può dire di Alt, giornalista che vive ormai da un po’ di tempo proprio in Giappone dove ha fondato AltJapan, società specializzata nella localizzazione in inglese di videogiochi e manga locali. Di fatto è un piacere accorgersi da subito quanto Alt sguazzi nello stesso mondo fatto di videogiochi e fumetti in cui sbraccia da sempre il pubblico a cui il volume si riferisce: bastano le primissime righe dell’introduzione con il primo approccio a Final Fantasy VII per fugare ogni dubbio. Per fortuna poi Alt va oltre: chi si approccia incuriosito a un libro come questo (magari stimolato dalla copertine pazzesche che ADD Editore sforna per questa collana dedicata all’Asia) di solito ne sa già a pacchi sull’argomento ed è in cerca di nuove informazioni, aneddoti e scoperte. Bene, Alt non delude. Dal primo incontro di un all’epoca sconosciuto William Gibson con il walkman fino al capitolo dedicato a Hello Kitty, Alt sviscera le radici della cultura pop giapponese, affiancando al racconto e all’aneddotica un’affilata capacità di analisi che gli consente di mettere in relazione fenomeni economici, sociologici, culturali e politici, delineando un quadro finalmente completo e ricco di significati. A lettura conclusa si esce arricchiti, e non capita molto spesso.
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Filosofia del gaming. Da Talete alla PlayStation.
Tommaso Ariemma, docente di Estetica e Sociologia all”Accademia di belle arti di Lecce, dopo aver dedicato due volumi al connubio tra filosofa e, rispettivamente, serie TV e anni ’80, questa volta declina decenni di ricerche di risposte esistenziali in salsa videoludica. L’esplorazione di Ariemma parte dalle origini, da Talete definito primo gamer, il primo ad astrarsi dalla condizione materiale dell’essere umano e iniziare a concepire un Tutto a cui apparteniamo. Affidandosi a un metodo che utilizzerà per la novantina di pagine successive, Ariemma avvia la comparazione allegorica tra filosofia e gaming con l’origine del Tutto per Talete, quella umidità che genera e permea ogni cosa, in cui dunque siamo immersi, allo stesso modo in cui ci immergiamo nelle atmosfere di un videogioco, finendo per escludere il mondo esterno. Quelli di Filosofia del gaming sono capitoli brevi, ciascuno dedicato a un singolo filosofo, ma ricchi di spunti. Un po’ come avviene in un gioco Nintendo, Ariemma semina un’intuizione, la aggancia a un concetto videoludico, illumina il lettore e poi passa al prossimo: così come altri publisher su una singola idea di un livello di Super Mario potrebbero costruire un gioco da 20 ore, anche in questo caso ogni capitoletto di Filosofia del gaming potrebbe essere espanso in un trattato. Esemplare in questo senso è il capitolo su Marx, che prende spunto dalla sua presenza in Assassin’s Creed, attraversa l’inscindibilità tra videogioco e politica, sottolinea la natura duale del videogioco nelle sue origini sia militari-capitalistiche che anarco-anti-capitalistiche, per arrivare al plusvalore del crunch e al capitalismo della sorveglianza: il tutto in sei facciate. Filosofia del gaming non va approcciato in cerca di approfondimento, non tanto perché manchi, quanto perché il suo autore predilige seminare spunti piuttosto che distribuire risposte: il passo successivo è lasciato al lettore. Sarebbe davvero interessante se il volume Tlon entrasse a far parti degli strumenti utilizzati dalla critica di videogiochi in Italia: di sicuro ne uscirebbero recensioni più interessanti.
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Eros Philia Agape
Altro libro breve, ma denso di contenuti, questa volta per Zona42, specialisti in fantascienza. Eros Philia Agape è un racconto di Rachel Swirsky, finalista sia ai premi Hugo che ai Nebula, tradotto da Rosita Pederzolli e inserito nella collana 42Nodi curata da Chiara Reali. Eros Philia Agape inizia con la fine della storia tra Adriana e Lucien. Lei, Adriana, ha deciso di assemblare lui, un robot, dopo la morte del padre, figura decisamente complicata e ingombrante nella sua vita. Lui, Lucien, è un robot di ultima generazione. Sulle caratteristiche fisiche del suo nuovo compagno, Adriana non ci ha perso molto tempo: le bastava non assomigliasse al padre. Il valore di Lucien però è dato dalla sua mente, capace di imparare, assimilare, collegare, evolvere, in qualche modo imitando quella umana. Eppure sono le piccole note stonate, quei comportamenti formalmente corretti, ma fuori luogo, a far innamorare Adriana al punto da decidere di regalare a Lucien per il loro matrimonio lo sblocco della coscienza e adottare insieme Rose. A quel punto però sia Lucien che Adriana saranno costretti ad accorgersi di quali siano le differenze, spesso non chiare nemmeno a noi stessi, tra amore e possesso. Swirsky si muove delicata tra i due punti di vista, tra la delusione di Adriana per il mutismo del proprio compagno e l’inattesa realizzazione di Lucien del proprio tentativo di riprodurre un amore altro, un amore umano. L’atmosfera rarefatta della loro casa, con le sue enormi finestre che si affacciano sull’oceano, da cui prende inizio la fine di Adriana e Lucien ci accompagna nella lettura mischiandosi con un velo di triste malinconia e un retrogusto di amara consapevolezza, verso un finale ineluttabile.
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Omnilith
Durante il main event di un atteso evento di wrestling, una misteriosa sfera di energia si manifesta sulla Terra. Nonostante la morte di quasi tutti gli spettatori, per l’umanità è un evento memorabile: l’omnilith, così viene battezzata la sfera, è una fonte di energia pulita, capace di sostituire le nostre tecnologie inquinanti e alimentata da una fonte pulita, ovvero gli scontri tra i lottatori nel ring. Tutto è bene quel che finisce bene, dunque? Sì, quanto meno per la Omnilith Power & Entertainment, l’azienda che si è presa cura della sfera di energia e dell’organizzazione dei tornei che la alimentano. Perché allora qualcuno sta attentando da settimane alla vita di Doc Vampire, sette volte campione del mondo e unico wrestler la cui identità sotto la maschera è segreta perfino all’organizzazione per cui lavora? Sulla base di questo spunto narrativo, Lorenzo Mò costruisce un racconto dal ritmo sincopato, in costante equilibrio tra Akira (beh, la citazione era parecchio evidente) e Watchmen. Se dal manga Omnilith prende la distopia ambientata nel futuro prossimo, la centralità del tema dell’energia e del suo controllo, oltre che le ombre sulla direzione imposta alla società da chi è chiamato a governarla, Lorenzo Mò eredita da Alan Moore l’impostazione del racconto come un’indagine interna. Qualcuno sta uccidendo i wrestler e sono i wrestler i primi ad accorgersi e a muoversi lungo i fili di un complotto forse ordito unicamente per attirarli. Dietro le tinte morbide usate per i colori, i personaggi sopra le righe che estremizzano usi e costumi del wrestling giapponese e nord-americano, dietro le sequenze action da shonen e l’estetica molto tarantiniana di alcune situazioni e personaggi, Lorenzo Mò si diverte a seminare spunti di riflessione su identità, maschere, controllo sociale, menzogne necessarie al mantenimento dello status uo, oltre a una raffigurazione di un adagio recente che bisognerebbe tenere sempre a mente: quando qualcosa è gratis, il prodotto sei tu. Ma Omnilith si lascia apprezzare parecchio anche in superifice col suo look ultra-pop in cui convivono i tratti cinetici del manga con le lionee morbide della tradizione umoristica italiana, una colorazione vivace che ben si adatte alle fasi più leggere del racconto, maschere ridicole e combattimenti grondanti di sangue. Lorenzo Mò è bravo a tenere insieme tutti i toni, senza sbilanciarsi mai eccessivamente, giocando con gli inside jokes per gli appassionati di wrestling e guidando il suo racconto verso un finale tagliente, duro, che arriva decisamente inatteso e lascia a riflettere col volume ancora appoggiato addosso.
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L’antimondo
Nathan Devers (da non confondersi col semi-omonimo personaggio bonelliano), non è la persona migliore con cui confrontarsi qualora abbiate problemi di autostima. Nato nel 1997, all’anagrafe 25 anni, è professore di filosofia alla École Normale, Bernard-Henri Lévy è un suo fan al punto da definirlo un nuovo Orwell e di volerlo alla direzione della sua rivista letteraria; se tutto ciò non bastasse, viene pure bene nelle interviste su Teams, con la sua camicia bianca, la sigaretta tra le dita e quell’aria da affascinante intellettuale francese. Aggiungiamoci un altro carico: secondo Louis-Henri de La Rochefoucauld, a sua volta scrittore e recensore letterario francese, L’Antimondo è il primo buon romanzo sul metaverso. Io mi permetto umilmente di dissentire, non certo per il buon romanzo, quanto per il ruolo del metaverso, un concetto che racchiude tutto e niente, ma che era ovunque nel momento in cui il romanzo è uscito in Francia, e che non a caso oggi diamo già per morto. Ma chiudo la polemica perché sto divagando. Dicevamo: Julien è un trentenne di scarso successo. La sua carriera da musicista non è mai iniziata, la sua ultima relazione è finita con l’invito a lasciare la casa condivisa e ora vive alle porte di Parigi, in una periferia priva di stimoli da cui non ha nemmeno più l’ambizione di progettare una fuga. Le cose, insomma, non vanno granché bene per Julien. Poi, durante una notte insonne, Julien si imbatte nell’Antimondo: un po’ social media, un po’ videogioco, un po’ metaverso (qualunque cosa voglia dire; ok, la smetto) che promette ai suoi partecipanti una seconda possibilità, proprio quella di cui ha bisogno. L’assenza di stimoli è un motore all’azione per Julien, ma il turbo ce lo mette Adrien Sterner, milionario proprietario del tendone del circo virtuale, accompagnato ovviamente da ambizioni trascendentali in cerca di conferme sulla sua natura divina. Nel progetto di Sterner che sogna di annientare il mondo assorbendolo nell’Antimondo, Julien gioca la parte dell’utile idiota, prima sedotto dall’insperata notorietà artistica da musico graffiante, poi totalmente soggiogato dal ruolo di messianico aizzatore delle folle ritagliato per lui dal lungimirante milionario. Uno strumento pubblicitario e politico inconsciamente al servizio di qualcun altro infinitamente ricco: ricorda nulla? Il resto è un percorso ineluttabile verso le pagini iniziali del libro, quelle del silenzioso suicidio di Julien in diretta Facebook da cui Devers decide di riavvolgere gli eventi nelle pagine seguenti. Il tema che nelle mani di qualcuno più boomer avrebbe rischiato di diventare la versione boriosa di Ready Player One è invece controllato con piena proprietà da Devers, sottilmente abile nel suggerire il piccolo ribaltamento di potere che avviene online (ben prima dell’invenzione [sic] del metaverso) e i meccanismi attraverso cui queste dinamiche provano a espandere i loro effetti anche al di fuori, nel mondo reale, col risultato di generare una realtà ibrida, confusionaria e molto complicata da decifrare.
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Il torto. Diciassette gradini verso l’inferno.
Nel 2020 Renato Bilancia detto Walter è morto di covid in carcere. Il suo è uno dei casi più inspiegabili e inquietanti nella lunga lista di eventi delittuosi che costellano l’abbondante archivio della cronaca nera italiana. Nel suo caso però non ci sono dubbi sulla colpevolezza, sospetti di collaborazioni esterne mai appurate o scambi di accuse tra familiari tali da alimentare ore e ore di programmazione televisiva in cerca del torbido. Eppure in soli sei mesi renato Bilancia ha lasciato sulla sua strada diciassette vittime, tante quante Jeffrey Damer, ma in un arco di tempo inquietantemente ristretto. La parabola omicida di Bilancia segue una traiettoria imponderabile, da ladruncolo di professione a profanatore di cadaveri passando attraverso l’omicidio con movente, l’omicidio per vendetta e l’omicidio casuale. Carlo Piano nel 1998 ha seguito la vicenda di Bilancia come inviato genovese di un quotidiano nazionale. Grazie a ai suoi contatti in carcere, riuscì persino a intervistarlo poco dopo la cattura. Nel natale del 2020, quando la notizia della morte di Bilancia in carcere lo ha raggiunto, Piano non ha saputo resistere all’impulso di rimettere insieme i pezzi della vicenda, impresa possibile grazie anche ai materiali avuti da Nicoletta Garaventa, figlia del difensore d’ufficio del serial killer: 75 faldoni, 90 mila pagine, 80 fascicoli di intercettazioni telefoniche, tabulati, video, esami balistici e genetici, ricchi per altro di annotazioni a penna scritti dall’avvocato lungo i bordi. Un’ossessione che si è tramutata prima in due anni di lavoro e poi in un libro che prova a spiegare l’inspiegabile, ovvero cosa sia passato nella mente di un uomo comune, che dal nulla nel pieno della mezza età ha iniziato a uccidere e non si è fermato fino all’arresto. Nel mare di true crime da cui siamo assediati su ogni fronte, ne Il torto di Carlo Piano emerge la navigata confidenza del suo autore con l’inchiesta giornalistica addomesticata per l’occasione in uno stile narrativo fluente e suggestivo, che fa da perfetto contraltare alla freddezza affilata di deposizioni e relazioni. C’è true crime e true crime, insomma.
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7 Crimini – Il Rapimento
Ne abbiamo già parlato diverse volte su queste pagine della serie edita da Tunuè e scritta in tandem da Katja Centomo ed Emanuele Sciarretta e il motivo è sempre lo stesso: 7 Crimini ha trovato una sua formula che funziona e ha saputo trattare temi complicati con navigata sapienza. Il debito nei confronti del true crime all’italiana, o meglio di quel filoni di programmi (da Un giorno in pretura a Storie maledette) che hanno anticipato il fenomeno è evidente, anzi ricercato dalla stessa Centomo che durante un incontro stampa si è dichiarata grande fan. Il caso di questo quinto volume riguarda il rapimento, ma è inquadrato da una prospettiva realmente imprevedibile e spiazzante, una dote che in fondo caratterizza tutti i volumi già pubblicati, in cui il crimine protagonista è presentato attraverso una lente particolare che rende la narrazione meno scontata. Un pregio indiscutibile della inoltre è anche e soprattutto quello di coinvolgere spesso disegnatori emergenti: questa volta è il turno di Francesca Biscotti il cui tratto realistico ben si adatta alla storia nera che racconta, movimentata da una gestione della tavola che sa concedersi escursioni al fuori della gabbia più classica nei momenti giusti. Stiamo veleggiando verso il finale e si intuisce che gli autori hanno in serbo qualcosa con la storia di cornice, ovvero quella del giudice bloccato su una baita da una tempesta di neve e convinto dagli altri ospiti obbligati a raccontare casi di cronaca. Se non l’avete già fatto, è il momento ideale per recuperare l’intera serie.
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Poverina
Di solito in questa rubrica cerchiamo di segnalare libri intercettati al di fuori del consueto giro della promozione letteraria, un po’ per nostre abitudini di lettura, un po’ perché degli altri ne parlano già altrove e in abbondanza. Poverina sfugge un po’ a questa regola perché tra il momento in cui abbiamo iniziato a leggerlo e la pubblicazione dell’articolo (ehm, mea culpa) di Poverina si è finito per parlare DAVVERO ovunque. Il merito va diviso tra Blackie, casa editrice bravissima a comunicare i propri libri, e il talento comico di Chiara Galeazzi. Redattrice per Vice e Rolling Stone, autrice di un pezzo comico che durante la pandemia abbiamo letto praticamente tutti, conduttrice radiofonica su Deejay: Chiara Galeazzi ha una verve comica davvero rara accompagnata dalla capacità (spesso assente invece in autori maschi, chissà perché) di ridere di sé. Ma di ridere davvero, non quella falsa autoironia che serve solo (spesso agli uomini, di nuovo) per ricevere in cambio complimenti. Poverina è il racconto in prima persona di un ictus avuto a 34 anni: gli ictus, come i figli, è meglio averli da giovane. Questa è la prima riga del libro, e rende benissimo l’idea. Non posso aggiungere molto sul contenuto di Poverina che non sia già stato detto: leggetelo se non l’avete già fatto, e vi scoprirete a ridere di cose che mai avreste immaginato potessero stimolare una risata. In aggiunta però va sottolineato il lavoro editoriale e promozionale di Blackie: la copertina è il dettaglio di un’opera del 1966 dell’artista giapponese Adanori Yokoo, intitolata Drooling, mostra un ritratto di donna dagli occhi in su, su sfondo blu. Un’immagine diventata subito iconica, che si presta facilmente al selfie e dunque deflgrata sui social. Aggiungeteci che è stata usata da Blackie anche per la busta in pluriball in cui il pacco è stato recapitato ai recensori e booktoker… e il resto è facilmente immaginabile. Noi vogliamo bene a Blackie dal giorno uno (e anche a Chiara Galeazzi), e non possiamo che esserne contenti.
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Piccolo Atlante Edonista: Tokyo
Tramontato il progetto di andare in Giappone questa estate, il Piccolo Atlante Edonista de L’Ippocampo si è rivelato un valido sostituto. La nuova collana degli atlanti de L’Ippocampo più che guide turistiche sono metadone per viaggiatori appiedati. Mappe, consigli, passeggiate e suggerimenti gastronomici sono incastonati all’interno di un ricco apparato fotografico che mira ad appagare quanto meno la vista, in attesa di un futuro check-in. Le guide della Lonely servono per preparare l’itinerario, acquistare i biglietti, programmare le cene, scegliere i musei. Il Piccolo Atalante Edonista invece mira invece a coccolare lo spirito, nel frattempo, addolcendo con scorci poco noti, squarci di vita quotidiana e imponenti panoramiche a due facciate. L’edonismo del titolo esplode nella scelta dei consigli, tutti votati all’appagamento dei sensi: tanto cibo, ma anche odori che raccontano e viste poco note che svelano un città. Oltre a Tokyo, nella nuova collana di atlanti edonisti de L’ìppocampo si può visitare, per ora, Berlino, Islanda e Norvegia. Il tutto nella consueta qualità dei volumi Ippocampo: carta leggermente ruvida e profumatissima, che valorizza i colori degli inchiostri, impaginazione minimale ed elegante, copertina rigida che fa la sua bella figura in libreria o sul tavolino. Ah, il prezzo è inferiore a quel chiletto in più sul bagaglio a mano che finite per pagare ogni volta in aeroporto.
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Suicide Squad – Caccia a Joker
Avete visto la Suicide Squad di James Gunn? Per convincervi posso dire che è semplicemente il miglior film di supereroi… di sempre, poche storie. Trai tanti pregi della pellicola c’è quello di aver ricordato alla DC Comics come un sacco di personaggi minori e strambi possano diventare ottimi comprimari di una grande storia se affidati nelle mani giuste. In questo caso le mani giuste sono quelle di Azzarello e Maleev, due che non hanno bisogno di presentazioni. La formula del volume pubblicato sotto l’etichetta Black Label, quindi meno vincolato alla continuity, è un po’ la stessa del film: prendere una manciata di cattivi minori, metterli in squadra con Harley Quinn, affidarsi allo scrittore per renderli figure tridimensionali a cui affezionarsi, e poi vedere ci lascia le penne entro l’ultima pagina. La variabile impazzita in questo caso è Jason Toad, secondo Robin, ucciso da Joker e tornato nei panni di Red Hood. Considerato che l’obiettivo della Suicide Squad in questa missione è proprio il più psicopatico dei clown, la miscela si rivela piacevolmente esplosiva. Azzarello è a suo agio, al punto da scherzare già alla terza pagine sulla morte di Jason voluta dai lettori; Maleev alle matite è una sicurezza, ma per l’occasione sceglie uno stile meno sporco del solito. Il volume Panini, cartonato con sovracopertina, fa una splendida figura in libreria come tutti quelli Black Label finora pubblicati.
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