All’indomani della finale degli Europei di Calcio 2020 disputata da Inghilterra e Italia, i media inglesi per dare l’idea del boom di ascolti hanno titolato che si trattava del secondo evento più visto dai funerali di Lady Diana (1997). Quando un funerale diventa la pietra di paragone per misurare la portata di un accadimento si ha la misura dell’importanza del personaggio. Diana Spencer, però, non era un capo di stato, una star dello sport, né una diva hollywoodiana, eppure ha avuto la capacità di calamitare su di sé un’attenzione senza precedenti nel bene, ma soprattutto nel male (per lei).
A venticinque anni dalla sua morte, qualsiasi cosa la riguardi diventa la notizia del giorno, la sua esistenza ha ancora il potere di mettere sia in ombra che sulla graticola la famiglia reale, e la fiction non è mai sazia di imbastire narrazioni intorno alla sua figura. Questa volta tocca a Pablo Larraín che, con una sorprendente scelta di casting, spiazza tutti offrendo il ruolo della Principessa Triste a Kristen Stewart.
Quella di Lady Diana è una storia che inizia come una bella favola, prosegue assumendo i connotati di un dramma personale e collettivo, finisce con una tragica morte, ma poi risorge nelle vesti di in un mito moderno suscettibile di interpolazioni, aggiornamenti e infinite declinazioni. In quest’ottica, Pablo Larraín dà evidentemente per scontato che chiunque decida di entrare in sala non solo sappia già tutto quello che c’è da sapere sulla vicenda, ma che sia sicuramente dalla parte di Lady Diana.
Il regista, infatti, sceglie di raccontare tre soli giorni – ma cruciali – nella vita della protagonista: le vacanze natalizie – dal 24 al 26 dicembre del 1991 – trascorse come da tradizione per l’intera famiglia reale nella tenuta di Sandringham, nella contea di Norfolk. È durante questo breve periodo che una già infelice, depressa e bulimica Diana matura definitivamente la decisione di lasciare Carlo. Va notato come il dramma interiore della principessa del Galles è mostrato come dato di fatto riconducibile alle vessazioni di una famiglia anaffettiva, cinica e fagocitante, anche se il massimo affronto che subisce sullo schermo è vedersi negata l’assistenza della sua sarta preferita, nonché amica e confidente, interpretata da una empatica e delicata Sally Hawkins.
Larraín, con una regia precisa ed efficace, contrappone gli spazi enormi e siderali della tenuta alla condizione di Diana che si sente sempre più messa in un angolo, in uno stato d’animo di claustrofobia emotiva. Gli interni del palazzo sono sontuosamente studiati non per accogliere, ma per incutere timore reverenziale: chi attraversa quelle stanze è solo un ingranaggio dell’inesorabile macchina della Tradizione. Tutto in Spencer ha un che di sinistro, dalle brume brontiane, alla bellezza formale, rigida e protocollata dell’intero setting che sembra preludere a un horror in piena regola. Ed è proprio quando la bella favola viene mostrata come un incubo perturbante (le perle ingoiate), attiguo a una ghost story (Anna Bolena) che il film dà il meglio.
Purtroppo la scelta di Larraìn è un’altra e include addirittura il lieto fine. Diceva, infatti, Orson Welles: “Se volete un lieto fine, questo dipende, naturalmente, da dove interrompete la vostra storia”, e l’autore la interrompe nel momento in cui Diana Spencer decide di autodeterminarsi al di fuori delle inflessibili regole imposte al suo ruolo sfrecciando via, amata e libera.
Le scelte di casting non hanno puntato sulla rassomiglianza, del resto la stessa Stewart ricorda Diana solo nei tic e nella postura, anche se è il reparto costumi a – letteralmente – cucirle addosso il ruolo. La performance le è valsa la candidatura all’oscar, una nomination generosa ma non rubata: Stewart si misura con una icona del nostra nostro tempo senza cadere nella trappola dell’imitazione, ma corrispondendo l’amore della camera con cui Larrain la insegue, la scruta e la mette costantemente al centro della scena.
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