Rilasciata sulla piattaforma Netflix circa a metà settembre, la serie sudcoreana Squid Game (Hwang Dong-hyuk, 2021) sembra aver conquistato i pubblici più disparati, diventando in breve tempo un vero e proprio caso mediatico che ha prodotto, nel bene e nel male, un numero spropositato di opinioni (sul merito) e qualche osservazione collaterale (delle quali non mi occuperò ritenendole tanto superate quanto mortificanti).
Costituita da nove incalzanti episodi, Squid Game riesce a mantenere la curiosità dello spettatore servendosi di una misurata scansione narrativa e un uso sapiente del cliffhanger, strategie narrative della serialità piuttosto classiche (ma sempre funzionali) che restituiscono di siffatta minimale trama le spietate meccaniche – morali e sociali – del “gioco al massacro” a cui si prestano gli sprovveduti concorrenti protagonisti e del quale, in fin dei conti, finisce per risultare più interessante la macabra varietà delle prove delle motivazioni degli anonimi ideatori.
Per lo spettatore sussiste un innegabile piacere perverso nel constatare, di volta in volta, chi e come fallirà tra i personaggi in lizza per la salvezza e il succulento premio finale, conscio che il protagonista – l’ignavo Seong Gi-hun (Lee Jung-jae) – la spunterà sempre in attesa di una più ardua prova che lo vedrà battersi per la sua (maturata) integrità, ossia il superamento del senso di colpa e la possibilità di assumersi (finalmente) le proprie responsabilità. Tifare per Gi-hun, allora, significa tifare per il suo nobile scopo selezionato tra i tanti – più o meno condivisibili – per questioni di giustizia sociale. È in questa maniera che lo squid game (il gioco del calamaro) rende palese la sua funzione (che poi è il concept alla base della stessa serie tv): gli esseri umani hanno uguali diritti e doveri e la Giustizia si fonda su quell’uguaglianza. Perciò la giustizia sociale non può essere statica, non può limitarsi a mantenere l’ordine forzoso tra i singoli, ma è un concetto dinamico che promuove il cambiamento positivo della collettività.
Ogni personaggio della storia esprime così una peculiarità in grado di promuovere o rifiutare quella positività, impartendo con la sua stessa parabola di vita e di gioco una lezione al protagonista (così come l’anziano Oh Il-nam incoraggia l’importanza della memoria storica e sociale e la schiva Kang Sae-byeok il valore della famiglia e della fiducia nel prossimo, l’arrivista Cho Sang-woo sostiene un individualismo spietato, mentre il ganster Jang Deok-su incoraggia un meschino materialismo etc…). Si tratta di insegnamenti che, in genere, si apprendono nella loro forma più elementare durante la giovinezza e che in quei “games” e nei ricordi infantili trovano la loro forza suggestiva e propedeutica, un passaggio che il concorrente medio sembra aver mancato del tutto.
Quindi, a voler esser precisi, Squid Game è in grado di offrire una riflessione più costruttiva di quanto possa esprimere la violenza mostrata per arrivarci. Al netto della storyline del detective in cerca del fratello scomparso – un mero intermezzo ai giochi utile solo a soddisfare quella compulsione tipicamente orientale di spiegare ogni dettaglio narrativo – Squid Game si offre come spettacolo in grado di accontentare sia gli spettatori “mordi e fuggi”, sia i fruitori in cerca di una rappresentazione più “stratificata”. D’altra parte, benché lo show sia stato associato a più di un’opera survival challenge – si va da Battle Royale (Kinji Fukasaku, 2000) alla saga di Hunger Games (Gary Ross, 2012), passando per un buon numero di manga e serie tv realizzati sulla stessa matrice, la cui portata critico-analitica finisce dove inizia il contest, mi sembra di poter dire che il padre putativo di Hwang Dong-hyuk sia piuttosto Roald Dahl.
Squid Game, infatti, è una versione horror – per quanto anche l’opera originale fosse tutt’altro che innocente – de La Fabbrica di Cioccolato, con cui condivide il cuore nero colmo di irriducibile speranza. Se ci si ferma a riflettere non si può non notare come la modalità d’accesso, con il rilascio di biglietti dorati, ricordi l’espediente democratico con cui Willy Wonka attira nella sua fabbrica i pochi fortunati(?) visitatori, desiderosi di metter mano sulla scorta a vita di cioccolato e caramelle, visitatori che presto si troveranno ad affrontare, volenti o nolenti, bizzarre prove di integrità. Mentre le quasi indistinguibili guardie rosse ricordino gli ubbidientissimi e spersonalizzati Umpa Lumpa. Certo, Seong Gi-hun non è amabile e meritevole come Charlie Bucket, ma proprio come lui è dotato di empatia e margine di successo, specie quando si mostrerà non disposto a cedere al ricatto imposto dal gioco.
Insomma, il messaggio è lo stesso, è durante l’infanzia che è possibile accogliere con ingenuità ogni accadimento, operare delle scelte e capire il peso che queste possono avere nelle nostre vite e in quelle degli altri. Willy Wonka, con il suo bagaglio di traumi irrisolti, è perfettamente conscio del valore formativo della meraviglia e del gioco nel momento in cui cerca, in nome di una giustizia sociale, l’erede del suo impero. Chissà che nella seconda stagione di Squid Game…
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