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Cantare nel buio — Maria Corti
Bompiani
Quale accusa si può muovere quasi a colpo sicuro nei confronti di un libro che segue le vicende di un gruppo di operai e operaie appena dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale? Per esempio, di scadere nel patetismo più sentimentale: ci sono tutti i fattori necessari per impietosire chi legge.
La versione iniziale di questo romanzo, intitolata Il treno della pazienza, era stata scritta da Maria Corti nel 1948 e presentata l’anno successivo al premio Libera Stampa di Lugano, su suggerimento di Gianfranco Contini. Poi l’autrice, all’epoca ancora agli inizi di una carriera che l’avrebbe portata a diventare una delle figure di riferimento nei campi della filologia e della storia della lingua italiana, aveva deciso di accantonare il testo. Racconta Corti quarant’anni dopo su Annali di Italianistica:
Lo lasciai inedito perché mi venne il sospetto che potesse essere preso allora per un romanzo neorealista: l’epoca era quella e i personaggi erano dei popolani. Invece, di neorealistico in quel libro non c’era niente, a meno che non si pensi come neorealistico l’universo di allora. Questo libro è la storia di un mondo che potrebbe dirsi barbarico, simile a un fatto di natura, esistente in Lombardia negli ultimi anni Quaranta: un protopendolarismo selvaggio, su carri bestiame per la mancanza nell’immediato dopoguerra di vetture ferroviarie.
L’elemento barbarico-fantastico era molto più importante dello squallore in cui viaggiavano questi protopendolari. Se ho intenzione di recuperarlo? Direi di sì. Lo sto recuperando proprio in questi mesi, dopo tanti anni; e siccome il tempo, che distrugge superbi palazzi, costruisce e arricchisce il nostro io, ho sentito la necessità di riprendere in mano quel testo lontanissimo e di rielaborarlo.
Così Cantare nel buio (ri)appare nel 1991, per i tipi di Bompiani.La trama si snoda lungo i mesi che vanno dall’estate del 1946 alla primavera dell’anno successivo, tra Milano e Chiari, un piccolo centro della provincia bresciana — senza dimenticare il terzo “luogo” della storia, il treno delle cinque e trenta che ogni mattina parte dalla campagna per raggiungere la Stazione Centrale. La guerra è finita, la repubblica è neonata e i collegamenti ferroviari sono ancora molto lenti ma già migliorati rispetto al periodo bellico, visto che i ponti sono stati ricostruiti. La città ambrosiana non è ancora stata investita dal boom economico che arriverà poco più avanti e i ricordi del recente passato sono ancora vividi.
Nello stabilimento di via Washington a Milano durante la guerra operai e operaie non avevano vita facile: i più ricevevano di nascosto ordini dai partigiani e sabotavano la produzione mettendo qualche pezzo in meno quando montavano materiale bellico o montandolo a rovescio o lasciando ben allentate le viti, ma dovevano fare molta attenzione perché i fascisti c’erano in tutti gli stabilimenti e inoltre c’erano gli uomini della Muti, che giravano in continuazione dentro i reparti e, se sospettavano qualcosa, finivi dritto in galera, dove finì a un certo momento il padrone stesso della [fabbrica] Borletti. […]
Finalmente venne la Liberazione e la vita di tutti cominciò a espandersi come le prime note di una marcia nuziale, sicché le giornate erano sonore e piene di felicità. Successivamente i partigiani scesi dai monti entrarono nelle fabbriche a fare un po’ di pulizia dei fascisti; alla Borletti presero i pochi scalmanati e li legarono nelle cantine della fabbrica in attesa di giustiziarli. Gli operai gli portavano da mangiare perché non si può lasciar morire uno di fame, anche se è fascista, e perché secondo loro non era la morte di quei compagni stupidi a contare, ma il fatto che finalmente stessero morendo certe idee.
Poi un giorno tornarono i partigiani, prelevarono i fascisti dalle cantine, li schierarono nei prati vicino al Cottolengo, in direzione del Giambellino, e li fucilarono. Era quello il posto da cui si passava durante la guerra per andare a prendere le uova in una grande fattoria. Dopo il getto dei cadaveri nel fiume Olona gli operai per qualche giorno lavorarono soprapensiero.
In pochi paragrafi Maria Corti tratteggia con distacco partecipe una situazione complicata: la Storia che stordisce quando arriva così vicina da poter essere sfiorata, il senso di umanità verso i “compagni stupidi”, i tentativi di sabotaggio (forse maldestri ma pericolosi, se consideriamo che Giorgio Strehler, Nina Vinchi e Paolo Grassi nell’inverno ’46-’47, mentre ispezionano i locali che ospiteranno il Piccolo Teatro, trovano ancora sui muri i segni delle torture perpetrate dalla brigata Muti).
È proprio alla Borletti di via Washington che lavora Armida, uno dei personaggi principali del romanzo; mai confusamente passiva come la Carla Dondi di Elio Pagliarani, secondo suo fratello Carletto è “così bella da rompere le scatole, una madonna matta”. Faustino, il suo fidanzato, ha un posto all’Alfa Romeo, dove è coinvolto nel sindacato e in diverse azioni di protesta. Faustino ama Armida e Armida vorrebbe ricambiarlo, ma ha altro per la testa, di sicuro un altro uomo.
Corti scarta l’idea banale di farne dei personaggi esemplari per costruire due individui che si muovono in un universo disegnato con attenzione: Armida e Faustino non fluttuano nel vuoto degli stereotipi, le loro distinte personalità si sono evolute grazie ai familiari, agli amici e ai compaesani.
L’originalità di Armida ha le sue radici in un padre poco convenzionale, che, a differenza degli altri, non sfrutta la domenica per cercare di guadagnare qualche soldo in più, sebbene questo significhi esacerbare la povertà della famiglia; l’ingenuità di Faustino deriva non da mancanze intellettuali, ma da scarsa consapevolezza e conoscenza del mondo in cui si muove, così lontano da quello dei suoi avi. Senza rendersene conto, i due fidanzati indugiano sul confine spinato che separa la modernità e il passato: chi avrà il permesso di varcarlo?
Nel frattempo intorno a loro si muove una teoria di personaggi minori che a quel confine sembrano meno interessati, che sia per ragioni di età, come l’anziano Cecco, o di indole, come Carletto, che condivide l’istinto della sua famiglia a porsi fuori dagli schemi.
A far muovere più in fretta la catena del destino saranno dei furti di biciclette.
La cifra di Cantare nel buio è la misura: la descrizione sobria dell’umiltà materiale che caratterizza la vita dei personaggi evita il miserabilismo; i contorni patriarcali della società sono evidenti senza necessità di sottolineature retoriche; i dialoghi sono tradotti in un italiano credibile, a volte influenzato in maniera naturale dalle forme del dialetto (“mi sono insognato” per “ho sognato”, “si può alzarsi” per “ci si può alzare”); la rabbia che porta gli operai a comportamenti irrazionali è inserita in una cornice che ne fa emergere le motivazioni profonde e coerenti senza giustificarne gli esiti.
Se Maria Corti era contrariata dalla possibilità che il romanzo potesse essere considerato neorealista, da parte mia credo di non aver fatto un ottimo lavoro nel sostenere le sue ragioni. Forse perché non sono certa che ne abbia poi di così solide, anche se preferisco lasciare questa categorizzazione a chi si occupa di italianistica. Nell’introduzione, Stefano Agosti sottolinea come il titolo della versione definitiva indichi un mutamento di sguardo: “privo di qualsiasi connotazione ideologica, esso infatti rinvia, nei termini del binomio che lo costituisce, all’antropologico e al naturale”. Ma, una volta riletto Cantare nel buio, mi è sembrata un’affermazione poco circonstanziata: perché cantare nel buio se non fosse necessario essere pazienti, e cosa richiede esserlo?
“Cribbio, non è bello alzarsi tanto presto quando non c’è ancora nessuno che si muove fuorché il sole in cielo e gli uccelli sulle piante. Però dopo ti abitui e ti metti a cantare.”
“Allora non cantate per contentezza.”
“Quasi mai.”
Il canto — degli operai, delle mondine, dei marinai — è la pazienza.
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