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I racconti coloniali di Alessandro Spina

Nella sua prefazione ai Racconti italiani (Guanda, 2019), Jhumpa Lahiri rileva il numero elevato di autori e autrici della nostra letteratura che lavoravano usando uno pseudonimo. Uno di loro è Alessandro Spina, che aveva scelto come nome d’arte l’appellativo verghiano (un Alessandro Spina viene menzionato in Mastro-don Gesualdo) assegnato in un primo momento al protagonista di uno tra i suoi racconti più apprezzati, Giugno ’40, che era uscito sulla rivista Paragone di Anna Banti e Roberto Longhi nel 1960 e gli aveva conquistato l’attenzione di figure del calibro di Citati, Calasso e Attilio Bertolucci, così come le lodi e la duratura amicizia di Cristina Campo.
Giugno ’40, il secondo racconto dell’autore a essere pubblicato, arrivava cinque anni dopo l’esordio con L’ufficiale, una storia apparsa su Nuovi Argomenti di Alberto Carocci e Alberto Moravia. A legare le due opere, la scelta inusuale dell’ambientazione, la placida Bengasi degli anni Trenta, e dei personaggi principali, due ufficiali dell’esercito italiano che all’epoca occupava la Libia.


Col passare del tempo, Spina comporrà quattro sillogi — Storie di ufficiali (Mondadori, 1967), Nuove storie di ufficiali (Ares, 1994), L’oblìo. Ventiquattro storie coloniali (Ares, 2004) e Nuove storie coloniali, per un totale di cinquantuno racconti — che andranno a formare la sezione centrale de I confini dell’ombra (Morcelliana, 2006), il ciclo che Spina dedicherà al concatenarsi degli eventi della storia libica, in particolare della Cirenaica, che si avvicendano durante il periodo tra il 1911 e il 1964.

copertine

Alessandro Spina era nato Basili Shafik Khouzam nel 1927 a Bengasi, dove il padre aveva fondato una fiorente azienda tessile, da una famiglia siriana di religione maronita. Nel suo prezioso Diario di lavoro (Morcelliana, 2010), Spina racconta la sua inusuale formazione: in Cirenaica studia presso scuole italiane, alle quali non potevano accedere studenti libici; nel 1940 si trasferisce in Italia, dove resta fino al 1953, quando consegue la laurea in Lettere alla Statale di Milano; torna poi in Libia per occuparsi della fabbrica paterna. La guerra d’indipendenza algerina contribuisce alla sua presa di coscienza riguardo il colonialismo italiano. Rimane a Bengasi fino al termine degli anni Settanta, quando, a causa dell’inasprirsi del regime di Gheddafi, preferisce l’esilio in Franciacorta, a Padergnone, dove vivrà fino al 2013, anno della sua scomparsa. Lo studioso Alessandro Triulzi lo considera “lo scrittore di lingua italiana che più a lungo ha scritto e vissuto in un possedimento oltremare dell’Italia coloniale”. Assolti gli obblighi biografici, torniamo alla materia.

Giugno ’40 descrive una festa a cui si reca il tenente Eugenio Cossa (olim Alessandro Spina): in questa ultima occasione di svago prima della dichiarazione di guerra, Cossa è attorniato dalla buona società italiana di Bengasi, formata da militari di alto grado e dalle loro mogli. Il loro luogo di riunione privilegiato, in tutte e quattro le raccolte, è il Circolo degli Ufficiali, una buffa costruzione dove si incontrano, si divertono, si tradiscono in una replica oltremarina dei loro passatempi prediletti in madrepatria: la maldicenza entusiasta e l’infedeltà annoiata. I nomi dei posti (il regio liceo ginnasio Carducci, la spiaggia della Giuliana) e delle vie (corso Italia, via Torino) contribuiscono a confondere l’ambientazione, che potrebbe essere una qualsiasi città italiana, e a renderla artificiosa, come se la vita di colonia non fosse che una recita da palcoscenico elegante e ridicola. 
Mi sembra così stupido che abbiamo scoperto l’America solo per farne una copia di un altro paese”, dice Ellen Olenska ne L’età dell’innocenza di Edith Wharton (Bompiani, 2019, traduzione di Mariarosa Bricchi) riguardo un’altra società di stampo coloniale, tuttavia nessuno dei personaggi sembra avere la minima consapevolezza di sé e del proprio ruolo, anzi, affermano spesso che l’Africa è vuota e disabitata, in apparenza dimenticando la più che decennale resistenza libica, annichilita dopo l’impiccagione di ῾Omar al-Mukhtār nel 1931 e lo sterminio di, secondo le stime di Giorgio Rochat, più di centomila libici, molti dei quali deportati in campi di concentramento.

A differenza della prima e della terza sezione de I confini dell’Ombra, nei cinquantuno racconti non si incontra alcun personaggio libico, neppure quelli che ci si potrebbe aspettare di trovare, per esempio ribelli, mercanti, notabili locali o interpreti. Come segnalano i vari titoli, i protagonisti sono ufficiali dell’esercito italiano, ed è forse utile sottolineare che non si tratta mai di ascari (le truppe coloniali reclutate in Somalia, Eritrea e Arabia meridionale). Oltre all’assenza significativa dei cosiddetti sudditi d’oltremare, Alessandro Spina si concentra in maniera molto sporadica su soldati semplici, coloni e abitanti italiani di Bengasi, che hanno al massimo ruoli di contorno. L’autore spiega nel Diario di lavoro che la decisione deriva da due considerazioni di base: il ceto militare era egemone in colonia e soprattutto in una città come Bengasi, la capitale della Cirenaica, meno cosmopolita e commerciale di Tripoli; il progetto imperialista italiano, giunto all’apice negli anni Trenta, escludeva in maniera pressoché totale il popolo autoctono. 

Pur senza abbandonare mai la prospettiva degli ufficiali, l’obliquità narrativa dei racconti fa sì che la dimenticanza assuma quantomeno le caratteristiche di una rimozione, nel senso freudiano del termine, visto che è plausibile che almeno una parte di loro abbia partecipato alla repressione orchestrata da Graziani e Badoglio. Potrebbe anche trattarsi di pura indifferenza. Alcuni, come il capitano Sorrentino de Il principe di Cleve, sono antifascisti (una posizione che non coincide per forza con l’anticolonialismo) e non è escluso che, dopo l’armistizio dell’8 settembre, possano entrare a far parte della resistenza italiana; del resto, la possibilità di conservare ruoli rilevanti nella ventura Italia repubblicana non sarà certo dovuta alla distanza dal regime: all’epoca dell’attentato fascista di piazza Fontana, nel 1969, il prefetto di Milano era Marcello Guida, che durante il ventennio mussoliniano era stato il direttore del confino a Ventotene.

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Ritratto di Alessandro Spina

Spina, restio a inquadrarsi nella genealogia del romanzo italiano, ha sempre sottolineato invece il suo debito verso la grande letteratura in lingua francese e tedesca: il Circolo ha qualcosa degli equilibri di corte di Madame de la Fayette, alla quale tributa un omaggio riprendendo l’intrigo del suo romanzo più celebre ne Il Principe di Cleve, e della Vienna crepuscolare di Schnitzler. Nel corso delle quattro raccolte diversi personaggi balzachianamente si ripresentano, come il taciturno capitano Valentini, oppure, nel caso de La laguna, rimandano ai protagonisti delle Illusioni Perdute. Il gusto dell’affabulazione, che emerge in Cena con racconto e Circolarità, potrebbe discendere da uno dei classici della letteratura mondiale, amatissimo da Spina, come Le mille e una notte.
Ispirata da un evento analogo accaduto nell’azienda tessile dell’autore, invece, è la trama de L’ufficiale, ribattezzato in seguito Il capitano Renzi, che gode di pochi precedenti: due soldati hanno stretto un legame omosessuale, trasgredendo così una norma del codice militare; il glaciale Renzi, capace di giustizia ma privo di indulgenza, li fa incarcerare nonostante le pressioni da parte del parente altolocato di uno dei due soldati affinché ci si dimentichi di tutto. Solo sul finire del racconto Renzi avrà uno slancio verso un’altra persona, un giovane sottotenente che deve raggiungere il fronte e per il quale Renzi prova un chiaro interesse. Spina, all’epoca un esordiente di ventotto anni, aveva già padroneggiato una capacità di indagine psicologica non scontata.

Nel momento stesso il capitano vide il suo giovane amico uscire dal circolo. Aveva un passo leggero, si sarebbe detto un ufficiale d’altri tempi, quando la carriera militare era ancora una grande carriera mondana. Continuava a rialzare i capelli sulla fronte con il suo gesto abituale, impaziente: sembrava li arruffasse più che metterli a posto. Da qualche minuto il capitano pensava con una sorta di invidia ai due soldati Danisi e Ranieri che, come aveva detto il maresciallo, si sentivano ora davvero liberi, con quel castigo li si era liberati da un peso. Lo scandalo è necessario, pensò il capitano; forse non bisogna cercarlo, ma il suo arrivo è come una grazia.

Se alcune storie occupano una pagina o poco più (Sulla rivaIl forte di RégimaIl silenzio) senza perdere di efficacia, le migliori sono le più lunghe. Per esempio la mia preferita, dal titolo scespiriano: Quando la foresta si mise in marcia. È l’ultimo racconto coloniale scritto da Alessandro Spina: concluso nel maggio del 1999, viene posizionato alla fine della quarta silloge, chiudendo così la lunga gestazione cominciata più di quarant’anni prima.

Valentino Borghi, ex ufficiale e ora colono, viene in possesso della biblioteca di un funzionario coloniale. In questa collezione spiccano due volumi: uno è Incontro nel deserto del danese Knud Holmboe (Longanesi, 2005, con una prefazione di… Alessandro Spina!), resoconto delle atrocità italiane contro la popolazione libica; l’altro contiene le memorie che un aristocratico stende in memoria del figlio, un giovane duca morto nel 1911 durante la guerra italo-turca per la conquista di Cirenaica e Tripolitania. Con l’aiuto dei due libri, frammenti spaiati di una memoria non può essere univoca, e dei due giovani, che appartengono alla sua stessa generazione sebbene entrambi siano già morti, Borghi si prepara alla guerra mondiale che, per lui, segnerà la fine di tutto e scrive una lunga lettera a un parente.

Tieni presente che i due (il duchino romano e il danese biondo, ben distinti nella figura come carte della partita, si contendono medioevalmente un’anima…) da qualche tempo vivono con me, entrambi mi interrogano e mi tormentano, l’uno vuole una cosa, l’altro ne vuole un’altra, l’uno chiede continuità, l’altro espiazione, e io… – ma sì, li ascolto entrambi, non perché sia uno spettatore a teatro, ma perché il dramma è irrisolvibile.

Scettico se non sdegnoso nei riguardi di molti confrères (la definizione per i colleghi), isolato scrittore arabo nel panorama letterario italiano del secolo scorso, cristiano maronita la cui famiglia proveniva dal Mashreq vissuto a lungo tra i musulmani del Maghreb, Alessandro Spina di sé ha scritto:

Pierre L. (che insegnava all’università e osservava con maniacale curiosità il mio doppio essere: industriale e scrittore, orientale ed europeo eccetera) diceva: «È evidente che lei ha scelto l’estraneità come metodo».
E cioè, dico io: non solo non ho sofferto né qui né lì, ma accettato da ambe le parti rifiuto l’integrazione totale e conservo la parte di estraneo volontariamente. Sorta di scelta di libertà e del cammino più difficile (e fecondo).

Ogni libro è un’eco di altri libri

Per qualche tempo ho cercato di risolvere un mistero: dove avevo trovato il nome di Alessandro Spina per la prima volta, considerato che lo ricordavo, cosa strana, da un testo in inglese e come scrittore libico?
Non poteva trattarsi de Gli imperdonabili di Cristina Campo, dove Spina compare come traduttore del racconto Storia della città di rame, parte delle Mille e una notte.
La soluzione era semplice: Il ritorno di Hisham Matar, tradotto in italiano da Anna Nadotti per Einaudi, dove Spina viene menzionato sia con il suo pseudonimo, sia con il suo nome di battesimo, ma senza specificarne il poco consueto retroterra. Il ritorno è un memoir che traccia, appunto, il ritorno in Libia di Matar, sulle tracce del padre, dissidente perseguitato dal regime di Gheddafi, e del nonno, membro della resistenza anti-italiana.

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Mara Ricci

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