Non so quanti anni abbia, tu che leggi queste righe. Ignoro se tu sia già entrato in quella fase dell’esistenza in cui ti guardi indietro e ti ritrovi a rimuginare sul passato, allargando il ricordo a troppi se e troppi ma, che diventano presto rimpianti e rimorsi. No so, in tutta onestà, se ci sia un’età della vita in cui quel meccanismo scatti per tutti, o se qualche fortunato ne sia nato immune. Quel che posso azzardare come certezza, invece, è che c’è un momento preciso nella vita di chiunque in cui questo fenomeno può verificarsi: la lettura di Rusty Brown.
Terza opera di Chris Ware, dopo Jimmy Corrigan. Il ragazzo più in gama sulla Terra (Coconino) e Building Stories, l’originale fumetto-in-scatola la cui pubblicazione italiana è stata a lungo inseguita, ma mai completata, Rusty Brown è una graphic novel in quattro parti, scritta e disegnata nel corso di 18 anni e 4 presidenze USA (Clinton, Bush, Obama, Trump), durante i quali alcune parti sono apparse su riviste con cui l’autore collabora.
Rusty Brown è anche il nome del giovane protagonista della prima parte del volume, che inizia come un documentario televisivo sui fiocchi di neve, prima che un repentino cambio di canale (con tanto di titolo, rumore bianco e credits) catapulti il lettore nel primo giorno di scuola a Omaha, lungo ben 113 pagine. Rusty è il figlio di Woody Brown, professore nella stessa scuola, uomo dall’aspetto caricaturale, dai modi goffi e colmo di rabbia. Mentre Rusty spala la neve dal vialetto coglie dalla finestra del piano di sopra tutta la mestizia della litigata mattutina dei genitori: li sentirà tutto il quartiere. O forse è Rusty ad aver sviluppato il superpotere dell’ascolto?
Sul fondo della mattinata dei Brown, letteralmente sul fondo, scorre la giornata dei Whites, frantumata in decine di micro-viegnette (che a loro volta possono ulteriormente ripartirsi). Alice e Chalky sono al primo giorno nella loro nuova scuola, accompagnati dalla nonna. Ci entrano in punta di piedi occupando a lungo la parte inferiore della pagina, mentre Ware gioca col tempo e con lo spazio della contemporaneità, fino a che un nuovo interludio di fiocchi di neve precede l’incastro dei due filoni narrativi.
C’è un po’ tutta la narrativa di Ware in queste poche prime pagine. Quella che ha raccontata finora è la vita (o forse la miseria) quotidiana di un microcosmo scolastico. Litigate mattutine, tristi viaggi in macchina, colazioni, sale professori che sanno di caffè e formaldeide, imbarazzi, chiacchiericci, slanci di fantasia, sguardi fissi fuori dal finestrino, istinti suicidi, piccole gentilezze, corridoi deserti: c’è persino lo stesso Ware ritratto come un prof patetico troppo attratto dai vent’anni dei suoi studenti, dalle loro gonne e dalla tentazione di farsi una canna su un sedile posteriore.
Non sorprende, data la ben nota attenzione ai dettagli di Ware, che tutti i temi che esploderanno nel volume siano già presenti in copertina, o meglio nella sopraccoperta in cartoncino, che si apre e si spiega, anch’essa opera dentro un’opera. La facciata scelta per stare ordinariamente di fronte al lettore, però è un manifesto programmatico della letteratura disegnata delle piccole cose di Ware: c’è lo scarico di una doccia, un banco, una matita rosicchiata, gocce, un palo della luce, u fogli, un posacenere, una casa con le finestre illuminate al piano di sopra e il corpo decapitato di una bambola. Tutte immagini racchiuse dentro delle bolle, come piccoli universi a sé, in cui tuttavia è racchiusa un folgorante normalità.
Eppure Ware riesce comunque a sorprendere quando, dopo aver lasciato Woody Brown nel parcheggio scolastico scricchiolante di neve, nella pagina successiva ci porta su Marte, dentro quel racconto di fantascienza che ha rappresentato l’apice della vita di Woody. Ma anche lo snodo della sua sofferenza sentimentale più cocente, quella delusione che ne ha marchiato l’esistenza e la sua forma attuale. Sono i fallimenti, per Ware, le lenti attraverso cui ci osserviamo e ci facciamo osservare. Filtri rotti come gli occhiali di Woody, attraverso cui riesce a vedere solo piccole parti di realtà abbastanza chiaramente da capire cosa gli stia succedendo intorno. Fino ad abbandonarla quella chiarezza e concedersi a una più rassicurante sfuocatura.
Rusty Brown è un’opera in costante evoluzione (quella pubblicata da Coconino dovrebbe essere la prima parte a cui seguirà una seconda non si sa bene se o quando), come le vite dei personaggi che la popolano. Vite che Ware segue cambiando costantemente punto di riferimento, visivo o temporale, sfiorando l’illusione che così se ne possa capire qualcosa.
Jordan Lint, il bullo che umilia Rusty nelle prime pagine, riappare nella terza sezione del volume come una serie di puntini da cui si forma un infante, oggetto dell’approccio più sperimentale alla narrazione per immagini di Ware. Il casino di Jordan esplode sulla pagina, prima forzato dentro l’ordine familiare imposto dal padre, odiato perchè violento, poi sempre meno contenibile in gabbie e didascalie dopo la morte della madre e l’irruzione dell’adolescenza. Jordan ha tutto e spreca tutto attraverso una lunga serie di scelte sbagliate su cui Ware non cala mai l’accetta del giudizio, pur regalando due sequenze di una potenza visiva quasi dolorosa.
La prima è l’incontro al supermercato con un Rusty adulto, rappresentato sempre di spalle: Jordan lo riconosce, lo saluta come un vecchio amico e allunga una mano da cui Rusty fugge terrorizzato. La seconda è la sequenza di pura rabbia rossa, tratteggiata a matita in uno stile lontanissime dalle rigide geometrie architettoniche tipiche di Ware, che esplode dopo la scoperta da parte di Jordan del libro in cui il figlio lo mette di fronte alla consapevolezza di essere stato anch’egli un padre violento.
La quarta e ultima parte, scritta a cavallo tra il 2012 e il 2018, tra Obama e Trump, è quella invece più politica. È lo sguardo triste di Joanne Cole il filo conduttore di una vita vissuta nelle retrovie, a scuola sia tra i banchi che in cattedra, da bimbina al lavoro in casa Lint con la madre, e da adulta, travolta dal razzismo persino nel tardivo tentativo di trovare pace tra le corde di un banjo.
Arrivati di fronte all’INTERVALLO (ancora sul rumore bianco e prima delle utilissime note dello stesso Ware) che chiude le oltre 350 densissime pagine e rimanda a un prossimo volume che forse, chissà, prima o poi arriverà, si rimane con la sensazione che l’ordine abbacinante degli inchiostri di Ware sia un tentativo, impossibile, di tracciare un senso nelle vite che racconta, che sono quelle medie, di tutti noi.
Quelle bolle sulla copertina siamo noi, micronici universi isolati gli uni dagli altri, destinati a sfiorarsi, a recitare come comparse nelle vite altrui, senza mai un vero e proprio ruolo da protagonista, spesso nemmeno per noi stessi. Rusty Brown è un cazzotto allo stomaco, di quelli che lasciano senza fiato e con la vista a punti per qualche secondo. Un colpo secco e doloroso che solo a Chris Ware concederemmo di sferrarci.
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