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C’è una frase che ricorre su Twitter e su Instagram, soprattutto d’estate, spesso attribuita a Isak Dinesen: “la cura di ogni cosa è l’acqua salata: sudore, lacrime e il mare”. L’autore, in effetti, è proprio Dinesen, cioè Karen Blixen, che ha ideato questo pseudonimo (ne usò più d’uno) cucendo il suo cognome di nascita insieme con il nome del personaggio biblico. La citazione, invece, sembra essere stata modificata per attirare più attenzione e in origine fa parte di un dialogo:
— Jonathan, tu mi sembri infelice — disse il babbo.
— Lo sono, babbo — dissi io. — Ho amato questa città e la sua gente. Me ne sono abbeverato con delizia. Ma c’è in loro qualche veleno che non posso tollerare. Se vi ripenso ora, sento che vomiterei l’anima. Non conosceresti una cura per me?
— Ma certo — mi rispose il babbo. — Conosco una cura per tutti i mali: l’acqua salata.
— Acqua salata? — feci io.
— Sì — disse egli. — In un modo o nell’altro: sudore, o lagrime, o acqua di mare.
Si trova in Diluvio a Nordeney, il primo dei racconti che compongono Sette storie gotiche, il libro al centro del dispaccio di oggi.
Sette storie gotiche è l’esordio di una quasi cinquantenne Karen Blixen: tornata in Danimarca all’inizio degli anni ’30 dopo il disastro economico della sua piantagione di caffè in Kenya (periodo di cui parla nel suo secondo libro, La mia Africa), scrive in inglese questa raccolta di racconti, che verrà pubblicata nel 1934 in Inghilterra da Random House e avrà un successo immediato.
Come è lapalissiano, le storie sono sette, tutte ambientate tra il Settecento e l’Ottocento; la Danimarca è lo scenario privilegiato, anche se non mancano sortite a Parigi, in Italia e in viaggio verso Zanzibar. Più complicato spiegare l’aggettivo “gotiche”: non è un riferimento al romanzo gotico inglese, piuttosto indica un senso di mistero che, sebbene non sfoci mai nell’horror, può arrivare al perturbante. Metamorfosi, doppie (triple, quadruple!) identità, fantasmi e un teschio stupendo, forse appartenuto a una fanciulla…
Diluvio a Nordeney è il mio racconto preferito. Nel corso di un’alluvione, quattro personaggi — madamigella Malin Nat-og-Dag, la contessina Calypso von Platen Hallermünde, il cardinale Amilcare von Sehestedt e il giovane Jonathan Mærsk — cedono ad altri il loro posto su una barca e accettano di aspettare in un fienile che qualcuno torni a prenderli. Non è certo l’Apocalisse, tuttavia la situazione è così precaria che la loro rinuncia può significare la morte. L’ironia e la spietatezza sono le due stelle secondo cui Blixen orienta la sua descrizione:
— Madama, — disse il Cardinale a Madamigella Malin — ho sentito dire che voi avete l’arte di far sì che nel vostro salotto chiunque si senta a suo agio, e nello stesso tempo ansioso di primeggiare. Siccome vorremmo che accadesse altrettanto, questa notte, vi prego dunque di far da padrona di casa, e di trasportare le vostre abilità in questo solaio.
Madamigella Malin accolse subito il suggerimento e prese in mano le redini della situazione. Per tutta la notte recitò la sua parte, intrattenendo gli ospiti con i rari doni della solitudine, delle tenebre, del pericolo, mentre, suprema sensazione della serata, come un artista in voga, come un celebre tenore italiano, quale nessuna dama rivale avrebbe potuto vantare in casa sua, teneva in serbo la Morte. C’è chi riesce a tentennare su un trono; Madamigella Malin, al contrario, sedeva sul fieno come su uno di quei tabourets che sono privilegio delle duchesse. Pregò Jonathan di affettare il pane e di distribuirlo, e per quella gente che durante tutta la giornata non aveva toccato cibo, la dura crosta nera aveva la fragranza dei campi di frumento. Nel corso della notte, Madamigella Malin e il Cardinale vuotarono quasi tutto il barilotto d’acquavite. I due giovani non ne toccarono.
Dopo questa ultima cena, ecco il rito millenario: i personaggi si raccontano delle storie per allontanare il momento della fine, e non è un caso che Diluvio a Nordeney si concluda con una citazione dalla traduzione francese de Le mille e una notte, dove la principessa Shahrazād si salva dalla stessa sorte con la sua abilità di narratrice.
Quando ho letto per la prima volta Sette storie gotiche — il frontespizio reca di mia mano la data del 21 febbraio 2005 — è stato il terzo racconto, intitolato La scimmia, a colpirmi più di tutti: è urgente combinare un matrimonio per Boris, un giovane cadetto scapestrato, e sua zia, la ricchissima badessa del convento di Seven, ha già in mente la candidata ideale nella persona di Athena, la dotta vergine di Hopballehus, amica d’infanzia di Boris e del tutto disinteressata al matrimonio. Tra le intemperanze “alla greca” di Boris e le descrizioni dell’aspetto androgino di Athena (che porta pur sempre il nome della nubile e fiera figlia di Zeus), paragonata addirittura a una giovane orsa, la badessa sa che dovrà forzare la mano e provocare una crisi per mettere in dubbio l’onore della giovane donna. La fine delle vicende è inaspettata e avverto tuttora il fascino arcano della sua impenetrabilità: non bisogna disprezzare gli dèi.
L’afflato crepuscolare che pervade il libro si intreccia spesso a una sensualità conturbante, che si incarna soprattutto nei personaggi femminili: la capziosa, multiforme Pellegrina Leoni de I sognatori, l’intrigante Fransine de Il Poeta, la dolce Nathalie de L’antico cavaliere. Le vecchie signore hanno la vista lunga e la volontà imperiosa dell’età, gli uomini giovani sono spesso romantici e irrisolti, i vecchi bonari e abili nel tramare inganni.
“Non troverai certo la suspense di Poe, ma una familiarità col soprannaturale” scrive Mario Praz nel saggio dedicato all’autrice dal quale Adelphi ha tratto la quarta di copertina; come le fate, il soprannaturale di Karen Blixen è amorale, il che non impedisce qualche lieto fine — ma non troppi.
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