Secondo Caparezza, il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista. Sono convinto invece che per chi scrive, soprattutto letteratura di genere, il libro più difficile sia quello che chiude una saga. Non ho la pretesa di sapere cosa passi per la testa di Christelle Dabos, l’autrice della quadrilogia de L’Attraversaspecchi, ma posso immaginare che si sia concessa un bel sospiro di sollievo dopo essere riuscita a tirare le fila dell’epopea di Ofelia con Echi in tempesta.
Che questo quarto volume dell’Attraversaspecchi sia diverso dai tre precedenti si capisce abbastanza presto, appena ci si accorge che questa volta Ofelia non è destinata a cercare fortuna e indizi sulla minaccia incombente in una nuova arca perchè la chiave dei misteri che avvolgono Dio, l’Altro e l’imminente caduta delle arche si trova proprio su Babel, forse tra le mura di quell’osservatorio delle deviazioni già incombente nel precedente capitolo. L’intera prima parte del volume vede dunque Ofelia compiere il suo percorso di espiazione personale, per colpe più percepite che concrete, diventando una cavia degli osservatori, che in qualche modo paiono attendersi il suo arrivo, mentre all’esterno Thorn procede parallelamente nell’indagine approfittando del controllo sull’osservatorio che gli garantisce la nuova carica ricevuta dai geneaologisti.
Decine e decine di domande gravano, letteralmente, sopra le teste di tutti, dai personaggi ai lettori senza dimenticare l’autrice, chiamata a un compito arduo ossia quello di distribuire entro l’ultima pagina tutte le risposte che un intreccio così carico di misteri reclama. Il flusso di coscienza di Ofelia, sola e vittima di esperimenti più vicini alla tortura che alla ricerca scientifica, è affollato di domande che si affastellano e sovrappongono, puntellando le pagine di interrogativi, un metodo utilizzato costantemente dall’autrice per sottolineare cosa ci sia in ballo in questo capitolo finale al lettore, ma forse anche un po’ a sé stessa.
Il soggiorno di Ofelia all’osservatorio è un viaggio nel dolore, nella privazione, nella rinuncia, tutti temi che paiono portanti nell’impianto narrativo della saga: non si può ottenere qualcosa senza perdere in cambio qualcosa d’altro. Una regola che pare valere per tutti, come dimostra il destino toccato a Berenilde in questo epilogo, ma anche e soprattutto per i protagonisti. Thorn, divenuto ormai un uomo meccanico, sorretto da un’armatura cigolante che è il suo solo sostengo, ha pagato in parti funzionali del corpo la lenta conquista di una dimensione emotiva di cui era glacialmente privo al momento del primo incontro al Polo.
Il personaggio che ha un rapporto di paretela più stretto col dolore però è Ofelia, segnata fin dall’infanzia dal passaggio attraverso lo specchio che ha liberato l’Altro, menomata e resa goffa da questo snodo fondamentale del suo universo narrativo, è costretta a perdere di libro in libro un pezzo di sé: persino il matrimonio con Thorn la costringe a sparire il potere familiare, mettendo così a rischio l’esclusiva del suo talento, ricevendone in cambio la condivisione del dolore del doloroso potere di Thorn.
Questo percorso trova il suo culmine in Echi in tempesta, dove le rinunce a cui sarà costretta Ofelia superano di gran lunga i tributi che in genere l’eroe deve concedere al campo di battaglia per uscire vincitore dallo scontro col suo acerrimo nemico. Esemplare, in questo senso, è l’ultimo atto di Ofelia all’osservatorio delle deviazioni, il punto di svolta del volume e dell’intera saga, che getta una prima luce sui misteri che collegano i due mondi, Dritto e Rovescio, e che stanno causando il progressivo ed inesorabile crollo delle arche: una cerimonia che giunge a compimento in un luogo dalle forti connotazioni mistiche, in cui Ofelia passa attraverso la privazione fisica e sensoriale e si conclude con la perdita non solo di un’altra sé, ma anche di ciò l’ha sempre resa unica.
Nessuno può esimersi dal lasciare qualcosa per strada, nemmeno Christelle Dabos che per far combaciare tutti nodi della sua saga deve sacrificare quel mondo costruito con tanta pazienza, di cui i lettori avrebbero con piacere esplorato gli angoli più remoti ancora per una buona manciata di libri, e che invece cade e pezzi e svanisce sia concretamente tra le pagine, sia metaforicamente agli occhi del lettore. Dopo aver ambientato ciascuno dei tre precedenti volumi su un arca diversa, Echi in tempesta si trova prima confinato tra le candide pareti dell’osservatorio, e poi attratto dall’orbita gravitazionale di Babel, che già si era intuito essere luogo cardine per intuire gli eventi che hanno condotto alla frattura e infine diventa anche il centro del nuovo incontro tra Diritto e Rovescio.
L’altro elemento sacrificato al dio delle conclusioni è il ricco parterre di personaggi che aveva accompagnato Ofelia fin qua. Chiusi fuori dall’osservatorio e lontani da Babel, coloro che sono stati co-protagonisti dei libri precedenti come Berenilde o zia Roseline finiscono declassati al ruolo di comparse, mentre il tentativo di scovare dio o l’Altro condotto da Archibald e Gaela ci viene raccontato attraverso gli occhi della quasi neonata Vittoria, espediente che la Dabos usa per passare brevemente a una terza persona, interrompendo il lungo flusso in prima riservato a Ofelia. Non serve necessariamente molto spazio per lasciare il segno, però, come dimostra la fugace, ma evocativa apparizione di Mediana, poche pagine che bastano a trattegiarne un destino tragico, ma perfetto dal punto di vista letterario. Solo nel finale corale riappaiono visi noti, intorno agli spiriti di famiglia riuniti e alla comitiva di Lazarus, presenza forte nella seconda parte del volume, per alzare il livello del ritmo e della posta in gioco, conferendo la giusta epicità a una conclusione che tarda un po’ a mettersi sul giusto binario, senza per altro saper rinunciare a qualche nuovo sacrificio in termine di personaggi che nel complesso suona un po’ stonato e, almeno in un caso specifico, poco in linea con la direzione della saga, benché di sicuro effetto.
Si può discutere sul peso di queste perdite nella valutazione di questo capitolo e nell’economia complessiva della saga, ma non si può certo dire che siano state vane. Echi in tempesta riesce a tirare i fili di tutti le trame più importanti, senza lasciare grossi buchi di trama per strada, concedendosi anche qualche colpo di scena, seppure cavandosela con una spiegazione complessiva che affonda nel metafisico, ancora una volta metafora di quanto le rinunce siano inevitabili, con buona pace di chi si attendeva invece una risoluzione più puntuale dei numerosi misteri in ballo.
La debolezza relativa del quarto volume, in relazione ai tre precedenti, non inficia però il giudizio complessivo sulla saga dell’Attraversaspecchi, nel complesso una lettura affascinante e avvincente, capace di tenere il lettore incollato alla pagina per quattro volumi, ma anche di fermarsi al momento giusto, prima di stiracchiare eccessivamente le idee. Se nell’articolo dedicato a I Fidanzati dell’Inverno parlavo di una scommessa sul fantastico da parte di e/o, a giochi fatti si può dire senza dubbi che l’azzardo sia stato vincente.
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