Dopo una vita in cui si è abituato a fare di tutto e un periodo di disoccupazione, Ricky trova lavoro presso una società di consegne. Le prospettive economiche sembrano rosee, ma superati i discorsi ispirazionali del colloquio il lavoro si rivela scandito da ritmi forsennati e concessioni nulle. Il tempo richiesto dal lavoro di Ricky stravolge poi gli equilibri familiari: la moglie Abbie, assistente  sanitaria domiciliare, è costretta a districarsi attraverso un’agenda fittisima usando i mezzi pubblici dopo aver venduto la macchina per poter acquistare un furgone, mentre i figli Liza Jane e Seb si vedono sempre più abbandonati a loro stessi nella gestione della vita scolastica e sociale.

Se nel precedente Io, Daniel Blake si intravedeva un briciolo di speranza affidata alla reti di relazioni sociali comunque nate su iniziativa personale nei microcosmi locali, quest’ultimo film di Ken Loach trasmette invece tutto lo sconforto di chi non vede più una via di uscita dalla modernità capitalista sempre più opprimente, i cui lacci ormai non avvinghiano più solo la dimensione sociale e lavorativa, ma si estendono a stritolare anche le vite private all’interno delle mura domestiche.

La vita da corriere di Ricky è un accumularsi di gironi infernali. Dietro le promesse di libertà e indipendenza lavorativa, il suo lavoro come corriere è sostanzialmente una dipendenza a cottimo, in cui il coordinatore del magazzino Maloney può fare il bello e il cattivo tempo  e le prestazioni vengono costantemente misurate dal furgone alla porta di casa. Traffico e multe sono fastidi corollari rispetto ai clienti che attendono i pacchi, nella migliore delle ipotesi interlocutori distratti, più spesso cinici opportunisti, che sfogano su Ricky frustrazioni private, ostilità condominiali, avidità spicciole o deliri complottistici.

L’attività di Abbie, che fino a quel momento aveva mantenuto l’intera famiglia, non è meno estenuante. I turni iniziano alle 7 del mattino e terminano all’ora di cena, costringendola a un ininterrotto pellegrinaggio attraverso Newcastle da un autobus all’altro. Anche in questo caso, la tabella lavorativa scandita da orari inderogabili è il grande metronomo, arbitro super partes che non si cura dei dolori e delle difficoltà di anziani e malati che Abbie accudisce al posto dei loro cari. I cui disagi, tuttavia, non possono rimanere trascurati, anche a costo di occuparsene fuori dall’orario lavorativo, compensando il rimprovero formale, dovuto, ma non sentito, con il diniego alla retribuzione straordinaria, non dovuto né sentito in questo caso.

In questo meccanismo implacabile votato alla massimizzazione dell’efficienza, unico paradigma misurabile dell’utilità al sistema stesso, tutto finisce stritolato sull’altare di un successo seduttivo, ma nei fatti irraggiungibile, come la carota appesa al bastone sopra la testa di chi pedala alla cyclette. Il prezzo di questo sacrificio che beffardamente richiede un’adesione volontaria ricade a cascata su ogni ingranaggio della società, filtrando attraverso le mura casalinghe fino a inondare le vite dei figli, forse i più lucidi e freddi nell’accorgersi dell’assurdità di una condizione che avvertono incombente, ma di cui per ora sono solo vittime civili e non soldati al fronte.

Se già la lotta di classe appariva in enorme difficoltà in Io, Daniel Blake, la grande assente e illustre sconfitta in Sorry we missed you è la classe stessa, dispersa e atomizzata dalla fase più moderna del capitalismo fino a cristallizzarsi in milioni di mono-classi composte unicamente di una singola unità quotidianamente in competizione tra loro. Nessuno è innocente, perchè alla sconfitta si è giunti con la complicità di tutti, incluso chi inerme attende in pigiama il puntuale arrivo del superfluo impacchettato. Nemmeno la famiglia è più un rifugio sicuro perchè contaminata da politiche collettive che privatizzano la tensione sociale e trasferiscono all’interno delle dinamiche familiari quella lotta per il controllo che ormai risulta persa oltre ogni previsione all’esterno. Fuori non c’è più nulla, come testimonia il numero di comprimari ridotto all’osso e dal minutaggio irrisorio, fatta eccezione per il gruppo di amici del figlio Seb.

Il senso di sconfitta è acuito da un film in cui il classico stile asciutto di Loach impatta ancora più duramente sulla pellicola. Snellito di ogni retorica e quasi del tutto privo di ogni accompagnamento musicale, Sorry we missed you procede secco a partire dai titoli di testa, trascinando subito lo spettatore all’interno di casa Turner fin dal primo minuto, nonostante un doppiaggio a tratti dilettantesco, per poi scagliarlo verso un finale deragliante e disperato in cui il senso di occlusione, l’ineluttabilità di un destino a cui non ci si può sottrarre è amplificata dalle inquadrature che si fanno via via più strette e anguste, imprigionando i protagonisti in celle di celluloide. L’acutizzarsi del divario socio-economico ad ogni livello e lo stato di disperazione degli ultimi che porta ad accettare soluzioni estreme sono due grandi temi che hanno caratterizzato questa fine di decennio, e se Parasite li affrontava rifugiandosi nel grottesco, Loach sceglie ancora una volta la via più cruda e sottoproletaria, risultandone contraltare perfetto sia in termini discorsivi che qualitativi.

 



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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