In bilico fra un Dark Souls e atmosfere archetipe prossime a Prince of Persia e Castelvania, Dark Devotion, prodotto indie sviluppato dal piccolo team francese Hibernian Workshop, si propone nella sua formula a due dimensioni come un buon titolo d’azione pur presentando dei difetti fin troppo evidenti.
Fra estetica e richiami
Hidetaka Miyazaki con i suoi prodotti ha involontariamente influenzato il processo di realizzazione di numerose opere videoludiche, imponendo oltre ai ben noti canoni estetici, anche una dottrina meglio distinta da una difficoltà elevata e da una forma mentis punitiva perché votata all’automiglioramento. La formula souls-like qui è senz’altro presente, ciononostante questa appare sin da subito pallida e più edulcorata, forte di richiami perlopiù visivi piuttosto che ludici. Non a caso la resa estetica di Dark Devotion è subito impattante: sfumature gotiche (questi più prossimi agli iconografici scorci di Castelvania), ma anche dark fantasy delineano la cornice grafica del titolo che, attraverso un sublime utilizzo della pixel-art, costituisce il più grande pregio dell’opera dello studio francese. Il world building ci lascia immergere in dedali decisamente da manuale: gli stilemi lugubri colmi di orrore e disperazione rispondono fedelmente ai dettami di un fantasy in tinte dark perfettamente declinato in salsa gotica (seppur non onnipervadente). Gli svariati mob con cui dovremo confrontarci sono anch’essi figli di un buon manuale di iconografia fantasy: passeremo da semplici non-morti (o ghoul) a boss di ben altra forma e sostanza, come Hezek, un frankenstein poco avvezzo al dialogo.
Proprio le boss fight rappresentano la vera summa stilistica del titolo, ispirante ed esteticamente coerenti con il setting dell’opera. Al di là di qualche mero stereotipo, la natura 2-D di questo Dark Devotion non preclude la presenza di una base narrativa. A tal proposito vestiremo i panni di una giovane donna templare la cui missione consisterà nel celarsi nei meandri di fitti dungeon pregni di creature da incubo di ogni sorta. Naturalmente l’accuratezza storica non è richiesta, d’altronde, eccezion fatta per qualche sporadico “esperimento”, le donne non erano ammesse fra i ranghi dei Cavalieri del Tempio. Andando oltre questa postilla storica, è decisamente interessante osservare la nostra impavida guerriera districarsi non solo fra le varie amenità che il titolo ci propone, ma persino contro i palesi sessismi con cui avremo lo spiacevole onore di imbatterci in alcune fasi di dialogo con alcuni confratelli cavalieri: il chiaro sottoprodotto di una dottrina muscolare e indubbiamente maschilista. Ciononostante, è doveroso ricordare che proprio la nostra protagonista sarà capace di giungere laddove altri hanno fallito, i cui corpi giacciono esanimi lungo le anguste e freddi pareti del dungeon. Molti li ritroveremo persino in preda a deliri mistici piuttosto sinistri, contribuendo ad accrescere il senso ostilità di quelle sale sovrannaturali. Questa singolare sensazione sarebbe potuta essere persino migliore qualora il team non avesse deciso di decurtare eccessivamente il comporto sonoro, questo dimenticabile e ricorsivo. Il gregoriano quando serve, manca.
Fede ludica
Uno degli strumenti più caratteristici dell’opera è sicuramente l’inserimento (tangibile) della fede. Questa è veicolata nel videogioco in maniera quasi agiografica, risultando la più valida alleata della nostra templare: pregando nei vari altari disseminati nell’ambiente, verremo inondati dal tipico fascio luminoso Blues Brothers style, vedendo ristabiliti immediatamente i nostri parametri. Inoltre, contravvenendo a quella dottrina punitiva tipicamente From Software, ogni qualvolta periremo, perderemo sì tutti i nostri consumabili, ma verremo premiati dalla sopracitata fede, che ci farà dono di equipaggiamento e/o bonus. Una sorta di ringraziamento per esserci trasformati in martiri della fede; una rappresentazione testuale che richiama dei concetti osservabili nella letteratura medievale, in particolar modo nell’epica cavalleresca francese. Un sistema di premi gradevole e piuttosto originale, pur finalizzato a semplificare una fase di rientro altrimenti traumatica.
Proprio questa sua caratteristica lo differenzia radicalmente da Souls e affini che, al contrario, orienta il focus del giocatore sulla necessità di non morire, pena il ripetersi del calvario. Tutto ciò viene ulteriormente sottolineato dalla disposizione dei checkpoint, qui fin troppo accomodanti, a tal punto da trovarli persino dinanzi alle aree preposte alle boss fight. Altra caratteristica decisamente sorprendente è l’utilizzo di alcuni particolari che contribuiscono a rialzare, seppur non incisivamente, il livello complessivo di difficoltà: sopra vi parlavo di fede e di ricompense, eppure avremo a che fare anche con dei malus che ci verranno lanciati sotto forma di maledizione; degli anatemi che potrebbero affliggere la nostra templare, come per esempio dei danni permanenti che andranno ad aumentare mano a mano che cammineremo.
Peccato per quel gameplay
Il gameplay costituisce a mio dispiacere la nota più dolente dell’esperienza che Dark Devotion propone. Preciso che per “nota dolente” non mi riferisco all’impossibilità di giocare il titolo, bensì alla differenza qualitativa che incorre fra questo e l’insieme di elementi di cui ho parlato fino a questo momento. La routine di comandi risulta anonima e poco esaustiva, impedendo l’esecuzione di quei pattern indispensabili in titoli di questa gamma; inoltre non è ben chiaro quale voglia essere l’eredità di Dark Souls su questo fronte: alcune concezioni nella routine di comandi sembrano voler suggerire importanti richiami alla grammatica del titolo di Miyazaki, ciononostante apprendiamo sin da subito come invece non sia così, avendo a che fare con i limiti delle due dimensioni e con una mala gestione dell’intero apparato di combattimento. Non voglio essere frainteso, Dark Devotion si lascia giocare persino senza troppe imprecazioni a figure sacre, più semplicemente il combat system poteva essere ottimizzato. A margine di questa critica, va altre sì detto che gli sviluppatori hanno lavorato (nei limiti umani che un team di due individui può sopportare) in maniera encomiabile in particolar modo sul fronte della diversificazione delle build, dando la possibilità al videogiocatore di poter optare per approcci e funzioni piuttosto variegate.
In Definitiva
Dark Devotion è un’opera esteticamente sopraffina nonostante un comparto gameplay claudicante. Ciononostante mi sentirei di proporlo più agli habituè dei metroidvania piuttosto che agli amanti dei souls, salvo che questi tengano più al colpo d’occhio piuttosto che alla dimensione ludica.
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