Oggi è una delle più grandi aziende del mondo, ma negli anni ’70 e 80′ la Disney se la passava piuttosto male, ed era arrivata quasi alla bancarotta, a causa di investimenti poco mirati e, molto prosaicamente, di una serie di flop terrificanti che l’avevano relegata ai margini dell’industria cinematografica. La svolta, in positivo, avvenne alla fine degli anni ’80 grazie ad alcune partnership mirate (in primis quella con Steven Spielberg che portò alla realizzazione di Chi ha incastrato Roger Rabbit?) ed ad un ripensamento generale delle storie da raccontare. La Sirenetta, del 1989, iniziò ufficialmente l’era del “Rinascimento”, ma il vero boom si ebbe negli anni ’90 quando a cadenza annuale vennero realizzati titoli quali Beauty and the Beast (1991), Aladdin (1992), The Lion King (1994), Pocahontas (1995), The Hunchback of Notre Dame (1996), Hercules (1997), Mulan (1998) e Tarzan (1999). Aladdin, appunto, fu il film che da solo portò nelle casse della Disney mezzo miliardo di dollari (di allora) e presentò per la prima volta una “principessa” volitiva, autonoma ed emancipata. Aladdin passò alla storia anche per l’incredibile performance di Robin Williams, che caratterizzò in modo indelebile il Genio della Lampada e per le memorabili canzoni di Alan Menken. Insomma, un vero superclassico.

Come ricreare quindi, dati i presupposti, la stessa magia dell’originale, sostituendo stavolta i personaggi animati con attori in carne e ossa e un bel po’ di effetti speciali? La sfida era apparentemente impossibile, ma al netto di qualche lungaggine di troppo, Guy Ritchie, Will Smith e il resto del cast, ne escono se non vincitori, quanto meno a testa alta.

Aladdin versione 2019 non è troppo dissimile dalla versione del 1992. La trama subisce pochissimi cambiamenti e molte sequenze chiave (l’entrata nella caverna, l’arrivo di Aladdin/Alì nella città, il viaggio notturno sul tappeto volante, l’esilio sulle montagne innevate, il twist finale) sono sostanzialmente identiche all’originale. Gli unici cambiamenti riguardano un maggior peso dei alcuni personaggi di contorno (l’ancella di Jasmine, il capo delle Guardie del Sultano) ma nulla di più.

Insomma, per non sbagliare o aggiungere materiale inutile e ridondante (come successo in Dumbo, anche se in quel caso la storia di partenza era troppo esile per reggere il peso di un film vero e proprio, visto che l’opera del 1941 era un mediometraggio quasi senza trama), John August e Guy Ritchie (sceneggiatore e regista) hanno cambiato il minimo indispensabile. Anzi, dove hanno aggiunto hanno fatto centro, trasformando Aladdin in un’opera molto più musicale e danzereccia, quasi un musical, ricca di effetti speciali, bellissime coreografie, costumi clamorosi e canzoni magnifiche (le stesse di Menken, ma interpretate in modo leggermente diverso e meno languido) che ammicca spesso a Bollywood. Peccato solo che la durata non sia rimasta quella dell’originale: 120 minuti per raccontare una storia che stava perfettamente in 90 sono un po’ troppi.

Fin dai tempi del trailer (anzi, del casting…), molti dubbi avevano riguardato la scelta di Will Smith per il personaggio del Genio, ma l’attore riesce a smarcarsi dall’ombra di Williams, fornendo una prova encomiabile, assai divertente e divertita. Molto convincenti sono anche Naomi Scott e Mena Massoud come interpreti dei protagonisti Jasmine e Aladdin, entrambi incredibilmente somiglianti alle controparti animate e perfettamente “compliant” alla mission di Disney del nuovo millennio.

Sarà difficile che Aladdin possa eguagliare il successo della versione del 1992, un po’ per il senso di deja vù che si prova guardandolo, un po’ perchè è oggettivamente schiacciato dai colossi messi in campo da Disney quest’anno (uscire tra Endgame e Toy Story 4 e The Lion King ne depotenzia parecchio l’hype), ma come versione Live Action non avrebbe potuto essere molto migliore di così. A volte fare un po’ i secchioni e firmare un compito poco originale ma senza svarioni, paga.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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