Dei racconti di Kristen Roupenian non mi ha colpito e conquistato tanto il torbido in cui rimesta, quanto il distacco emotivo e un filo di cinismo sornione con cui si infila i guanti di gomma e affonda le mani nel marciume sentimentale dei suoi protagonisti.
Sesso e potere costituiscono un’alchimia letteraria secolare e non di rado sono stati accompagnati da una nota di perversione o feticismo, proprio come succede in Cat Person. Gli ingredienti sono gli stessi di sempre, dunque, ma i racconti con cui Kristen Roupenian ha staccato un assegno milionario alla sua casa editrice (come conseguenza del clamore suscitato dal racconto Cat Person sul New Yorker, NdClod) e con cui si è guadagnata un posto tra le posate esordienti bianche e di buona estrazione sociale alle prese con la riscrittura della letteratura statunitense contemporanea hanno un sapore definito e nettissimo, figlio di una spiccata attitudine al controllo e alla costruzione.
Se da qualche parte la natura improvvisa dell’intuizione e l’irrazionalità dell’ispirazione hanno avuto un ruolo nella stesura dell’antologia di racconti più attesa dell’anno, non ne rimane quasi traccia nel distaccato risultato finale che Roupenian serve in equilibro perfetto di profumi, colori e retrogusti amarissimi al suo lettore.
La nota più ricorrente è quella di cuore, una lieve traccia di ricordo o nostalgia degli anni ’90 che si portano dentro storie come la titolare Cat Person, la decadente Il ragazzo della piscina e la mansoniana (riferimento immancabile per questa nuova generazione di scrittrici, vai a capire perché) Look at your game, girl. Non è una nostalgia fine a sé stessa o un ripetere quanto già successo per gli anni ’80. Istintivamente, a partire dalla propria esperienza, Roupenian sa che quella decade non è fatta di ricordi dorati che la rendano una nuova golden age, una parentesi già chiusa d’idilliaca felicità o chissà cos’altro.
No, Roupenian individua perfettamente le due componenti archetipe delle adolescenze fiorite in quegli anni: da una parte una cappa oppressiva di decadenza umana e culturale, dall’altra la fertilità di un terreno su cui, inascoltato, è caduto il germe del nuovo Millennio. In Cat Person – per chi c’era – sembra quasi di sentirli, anche se non descritti, i click click click dei tasti dei Nokia schiacciati a velocità folli in un turbinio di scambi testuali brevi, anticamera inconsapevole dell’odierna messaggistica istantanea eppure codificata da una fisicità nel gesto di scrivere e da una limitazione per lunghezza, costo e velocità che rendono il legame tra i due gesti e le loro estreme conseguenze meno netto.
Nelle altre due storie invece, pur essendo americanissime, si trova quella traccia globale di contemplazione convinta dello squallore, senza ancora avere per le mani il bisturi del meta e dell’autoironico. Il film TV erotico che è rimasto come sfondo silenzioso ai ricordi d’adolescenza delle protagoniste di Il ragazzo della piscina sembra uscito dritto dritto dalla programmazione delle tre reti Mediaset di quegli anni, in orari notturni non immuni dal riflesso sinistro di Non è la Rai e del Bagaglino.
Il sesso è sdoganato, visivamente e commercialmente, anche di fronte al pubblico più giovane. I corpi non vengono solo venduti; sono svenduti, in una cornice estetica di bassa qualità. È la grana grossa delle VHS, certo, ma è lo squallore delle produzioni a basso costo sorrette solo dalla voglia di soldi facili. Nel mezzo c’è una ragazza che osserva gli skater da lontano, con i Guns ’n Roses (anzi no, solo l’attraente cantante Axl Rose) i cui pezzi girano sul walkman. Dal culto dell’estetica sgargiante, abbagliante e pop delle generazioni precedenti si passa a quello morboso del corpo, talvolta disumanizzato, o anche fatto a pezzi.
I protagonisti ma soprattutto le protagoniste di Cat Person sembrano avere questa matrice comune, anche quando sono pienamente integrate e adulte, (iper)connesse ai due decenni successivi. Eppure da qualche parte nel cervello c’è ancora il residuo di un’epoca maschilista, di una figura maschile sgradevole e minacciosa che le blandisce con quel “sai di volerlo”, e ciò che vogliono tende ad essere sgradevole e violento, anche verso sé stesse.
A differenza loro Roupenian esercita un distacco fortissimo da ciò di cui parla. Se è evidente come applichi con professionale precisione ogni espediente e metodo atto a costruire racconti brevi solidi, con attacchi talvolta vertiginosi e chiuse capaci di reggere il peso delle aspettative, le manca quella sfumatura ironica e meta di chi è venuto dopo la morte dell’analogico.
L’attitudine seria, maledettamente seria, con cui esplora i rapporti di potere tra i suoi personaggi – dentro e fuori le loro camere da letto e le loro meschinità – funziona meglio di una datazione al carbonio. È lo stesso sguardo serio con cui si guardavano Beverly Hills e Non è la Rai, lo stesso ascolto attento con cui si faceva ripartire il CD dei Nirvana. L’alto e il basso irrimediabilmente mescolati, senza i filtri successivi del meta, del guilty pleasure o del trash a salvare adolescenti per cui tutto era serio e amabile, ancorché squallido.
Il sesso raccontato da Roupenian è innanzitutto un rapporto di potere, derivativo e quasi distaccato. È potente come una droga se diventa strumento per acquisire o cedere potere, esercitare o meno un livello proibitivo di violenza. Il coltello qualche ex ragazzina se lo ritrova dalla parte del manico, ma è difficile sfuggire davvero alla vocina che ti dice che sai cosa vuoi. Talvolta è lasciare la tua realizzazione personale per assolvere appieno al compito di brava compagna, ma può voler anche dire fare a pezzi il tuo uomo caduto dal cielo per esplorare ogni potenzialità e lusso prima preclusi.
Il potere rimane l’unica valuta di scambio e l’ultimo mito, mentre il sesso è quasi una transazione più o meno inevitabile. A contare davvero sono le aspettative che ci costruisci sopra prima e le conclusioni a cui giungi dopo, così come succede in Cat Person. Che poi uno un gatto ce l’abbia o no è tutto sommato irrilevante, il punto è non distruggere una costruzione immaginaria sulle tenui tracce lasciate dall’incontro romantico e fisico vero e proprio. Ci si può convincere di tutto, insomma, e agire di conseguenza, ignorando i dati reali o la mancanza degli stessi.
Il punto forte dell’esordio di Kristen Roupenian è che sa far rivivere un’epoca e individuarne le tracce (o i traumi sopiti ma insuperabili, come la ragazzina di Look at your game, girl) senza mai caderci dentro, senza mai risultare ombelicale come le sue colleghe Emma Cline, Catherine Lacey, Sally Rooney e le altre esordienti di grido di questi anni, spesso afflitte dall’eccessiva proiezione del loro vissuto nella loro opera. Se c’è una rielaborazione personale, qui è talmente staccata dal vissuto emotivo dell’autrice da risultare corpo morto, freddo, dall’origine ignota.
Purtroppo per lei e per noi lettori, per quanto impersonale Roupenian non si può davvero affrancare dalla cornice mediatica in cui è stata inserita. In più di un passaggio si percepisce che il racconto è portato a casa più per doti stilistiche della scrittrice che per compiutezza della storia. Titoli come Mordere o Sardine sembrano una prima stesura in cui testare il potenziale dell’idea di partenza, senza però tornarci più sopra raffinando la scrittura istintiva. È la fretta dell’aspettativa che non intacca la prestazione dell’autrice, quanto ne riduce i passaggi per arrivare a un risultato finale soddisfacente, ma purtroppo ancora grezzo. È il problema delle profezie destinate da avverarsi, comprate a suon di hype e assegni milionari: hanno una data di scadenza e sono terribilmente concentrate sul far diventare la giovane promessa una certezza, paradossalmente senza curarsi troppo di ciò che si era promesso.
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