Una volta che avrete acquisito una certa familiarità con la letteratura giapponese del Novecento, vi basteranno poche pagine per poter stabilire con assoluta precisione se il romanzo che state leggendo sia stato scritto prima o dopo. C’è una fortissima linea di demarcazione, un prima e dopo appunto, nella produzione letteraria nipponica novecentesca.
Anzi, a ben vedere la letteratura giapponese tende proprio a procedere per lunghi tratti di strada a velocità e direzione invariata, per poi subire brusche sterzate impartite dalla Storia. L’ultimo di questi cambiamenti epocali non ha investito solo la letteratura, ma la società giapponese nel suo insieme. Il Novecento giapponese è stato un periodo di profondi cambiamenti sociali per i nipponici e di conseguenti turbamenti per gli scrittori che ne raccontavano la realtà. Appena usciti da un isolazionismo centenario, l’impero conobbe in un pugno di decenni prima l’espansionismo coloniale, poi la guerra mondiale, poi le due Bombe, la fine dell’ultimo residuo di divinità insita nell’Impero del Sole e un decennio di occupazione statunitense.
Tutti i conseguenti cambiamenti letterari sono una risposta originata da una situazione drammatica, uno stimolo negativo, doloroso. L’ultimo grande cambio di rotta invece fiorisce nel pieno boom economico, durante gli anni ’80, quando due scrittori che condividono lo stesso cognome distrussero le convenzioni letterarie precedenti, mentre un’intera generazione di giovani sfidava la società tradizionale come forse mai prima d’ora nell’Arcipelago.
Prima di Ryu e Haruki Murakami c’era una sorta di onda radio che sintonizzava la quasi totalità della produzione letteraria giapponese sulla stessa frequenza, portando scrittori e romanzi molto diversi tra loro ad utilizzare le medesime convenzioni stilistiche. Bastano poche pagine per capire che Dandelions e Territory of Light sono due tra gli ultimi romanzi a rientrare pienamente in quel prima, a fare ancora propri senza riserve o ibridazioni certi tratti letterari intrinsechi della tradizione giapponese.
Prendiamo Dandelions, l’ultimo romanzo scritto da quello che forse è l’ultimo grande autore puramente giapponese del Novecento. Kawabata Yasunari ne scrisse la prima stesura (quella che leggiamo finalmente in traduzione inglese grazie a New Direction Books) nel 1972, poco prima di morire. Dei 37 elegantissimi volumi che costituiscono la sua opera omnia nell’edizione giapponese, Dandelions non è certo il picco qualitativo. Non ha avuto nemmeno l’onore di essere il manoscritto sulla scrivania del Maestro nel giorno della sua morte. Quel posto lo occupava da decenni Il paese delle nevi, il suo capolavoro e la sua magnifica ossessione, che scrisse e riscrisse sino alla morte, in un continuo processo di rifinitura e sottrazione che ricorda l’evoluzione formale tra La pietà giovanile e La Pietà Rondanini di Michelangelo.
Dandelions non è neppure il libro più indicato per approcciare lo scrittore, ma fornisce il sottile fascino di un’intimità inaspettata al lettore che lo affronta dopo aver letto i titoli che sono valsi allo scrittore il premio Nobel per la letteratura nel 1968. Tanpopo, ovvero il titolo originale dell’opera, ha la sfumatura vagamente peccaminosa di un’occhiata indiscreta sul dietro le quinte di un’artista raffinatissimo e molto preciso, che mai avrebbe incontrato il suo pubblico senza un attento processo di revisione e rifinitura. Scritto da un Yasunari prossimo alla morte, dalla salute cagionevole e dalla psiche prostrata dalla terribile morte dell’amico e allievo Mishima Yukio, Dandelions è a tutti gli effetti poco più che una bozza, una prima stesura d’impulso per uno scrittore noto per mediare ogni singola parola, levigare ogni singola frase, soppesare ogni simbolo, in un processo infinito che preclude al lettore ogni briciola di spontaneità.
Eppure di quanta grazia incisiva è capace il maestro della malinconia, realizzando già nella prima stesura una storia dall’equilibrio narrativo etereo ma intricatissimo, come quello del tarassaco nel suo stadio finale, quando il fiore giallo diventa bianco, delicatissimo.
Come lo stadio finale di fioritura della pianta che gli dà il titolo, Dandelions racchiude appena uno spazio vuoto, tratteggiando poco più di una giornata trascorsa insieme da due persone unite da un’ombra. I protagonisti del romanzo sono la madre e il fidanzato di Ineko, una giovane donna che è stata appena accompagnata dai due in una clinica, dove verrà ricoverata per guarire da un attacco di asomatognosia. La giovane infatti non vede più il corpo del suo promesso sposo Kuno. Dandelions si apre con i due protagonisti che si allontanano a piedi dalla clinica Ikuta verso la stazione ferroviaria, raggiunti dal riecheggiare di una campana che viene suonata dai pazienti. Il propagarsi di ogni rintocco investe come una folata di vento il tarassaco dei loro ricordi riguardanti la ragazza: Yasunari segue il volo di ogni singolo astenio, impollinando poco più di 24 ore con i ricordi, i segreti e dubbi delle vite dei due personaggi, accomunati dal loro rapporto intimo con la ragazza.
Mentre procedono verso la stazione, Kuno e la madre di Ineko tentano di rassicurarsi a vicenda e di convincere l’altro della propria posizione: il ragazzo vorrebbe far dimettere Ineko e sposarla subito, sostenendo che una relazione stabile la salverà, la madre al contrario suggerisce di sciogliere il fidanzamento, evitando a Kuno una relazione socialmente infamante con una persona affetta da disturbi psicologici, seppur leggeri. Indecisi sul da farsi, i due deviano poi verso uno squallido alberghetto, dove trascorreranno la notte, continuando a discutere sul da farsi: rincasare o ritornare alla clinica e far dimettere Ineko?
Dandelions ha come protagonista assoluta l’ombra senza voce di Ineko, una sorta di ritratto cubista realizzato a partire dai punti di vista divergenti della madre e del suo fidanzato, dei ricordi che rievocano insieme, delle memorie che si tacciono a vicenda. Per il lettore è impossibile stabilire quale sia l’autentica Ineko, una figura sfuggente persino per i suoi cari, che messi a confronto scoprono sfaccettature della ragazza inedite. A sua volta la vita di Ineko sembra modellata su quella di un’altra ombra, di un’altra assenza: il padre di lei, eroe del conflitto mondiale, morto (o suicidatosi?) cadendo in un dirupo mentre cavalcava con la figlia, testimone del tragico evento.
Qua e là la giornata di Kuno e della madre di Ineko è affetta da qualche incongruenza narrativa, figlia dei lunghi mesi di pausa tra la stesura della prima e della seconda parte, trascorsi dallo scrittore gravemente malato in ospedale. Nonostante le difficoltà nel portare a termine l’opera, Dandelions è la fase embrionale di uno scritto pienamente maturo di Yasunari, in cui già distinguiamo chiaramente i caratteri puramente giapponesi, la sottile complessità della sua opera. Più che un fluire ordinato di tempo e relazioni causa-effetto, Dandelions è un’occhiata fugace a una superficie piana dove sono sparpagliate le 24 ore raccontate dal romanzo, i ricordi rivissuti dai due protagonisti, i pensieri su Ineko che i due non si confessano, due fugaci flashback che raccontano i passaggi chiave della vita della ragazza. È una visione d’insieme vertiginosa per complessità, è un ritratto terribile nella sua chiarezza della vera natura di Ineko, i cui tratti emergono più chiaramente attorno ai vuoti, alle domande senza risposta che i due personaggi si fanno sulla ragazza.
Come spesso succede al lettore occidentale, cresciuto nella logica cronologica e scientifica del romanzo europeo, sembra di osservare un tarassaco ormai sfiorito; il racconto comincia e finisce in momenti privi di significato, senza una chiara delimitazione degli eventi, senza la presenza di un cambiamento che denoti chiaramente l’inizio e la fine, lo scopo del romanzo. È l’impressione complessiva che si ricava su Ineko, in questo caso volutamente contraddittoria e ambigua, derivata dall’accostamento di episodi quotidiani, banali, incisivi l’essenza stessa di questo splendido, impulsivo e appena sbozzato ritratto che ne fa lo scrittore, la materia di cui è fatta la letteratura giapponese del prima.
Anche Territory of Light procede per tableau più che per rigide concatenazioni cronologiche di eventi. Il breve romanzo di Yuko Tsushima racconta 12 episodi di vita quotidiana di una madre e della sua bimba, costrette a una convivenza non sempre semplice in un appartamento minuscolo, al terzo piano di un edificio occupato solo da uffici o spazi sfitti. Poco più di una stanza, la loro abitazione in affitto è territorio della luce che entra copiosa dalle finestre, disordinata e mai linda.
Attingendo alle convenzioni della letteratura giapponese, ma anche alla tradizione orale delle popolazioni Ainu del Hokkaido, la scrittrice, nome di rilievo del filone intimista degli anni ’70, rielabora la propria esperienza personale di donna neo-divorziata. Attraverso la protagonista fittizia, l’autrice rievoca la lenta conquista di un proprio spazio personale, minuscolo ma luminoso, per affrancarsi dall’ombra dell’influenza economica e sociale del marito.
Da sempre impegnata a proporre voci poco note del panorama letterario internazionale, l’editore New Directions di New York è impegnato da anni nella traduzione dell’opera della figlia di Dazai Osamu, rimasta orfana di padre a solo un anno, dopo il celebre suicidio dello scrittore decadente voce di una generazione nel drammatico dopoguerra nipponico.
Pubblicato nel 1979 e proposto a due anni dalla morte dell’autrice con la traduzione di Geraldine Harcourt, Territory of Light è, cronologicamente parlando, uno degli ultimi romanzi del “prima”, anche per modalità di pubblicazione. Venne infatti proposto a puntate su una rivista letteraria e solo in seguito raccolto in volume. La sua natura episodica non pregiudica però la visione d’insieme, più marcata nell’esperienza di lettura occidentale per la rapida giustapposizione degli episodi. Tsushima ricostruisce la quotidianità di una donna alla ricerca prima di una nuova routine senza il marito, poi di un equilibrio per ridisegnare daccapo la vita per sé e per la figlia.
Territory of Light racchiude piccole epifanie, grandi crisi e errori di una notte di una donna che sta raccogliendo le forze per rendere irreversibile la separazione dal marito, o quantomeno per non ricadere nelle vecchie consuetudini. L’autrice non sottrae nulla al ritratto della sua madre tornata nuovamente single, in un Giappone in cui l’emancipazione femminile è una novità vista con sospetto, quasi fosse un capriccio, in una società ancora chiaramente disegnata affinché una donna occupi il posto a fianco di un uomo.
Il percorso della protagonista, che inciampa in ubriacature colossali, avventure di una notte e momenti di estremo fastidio nei confronti della figlioletta, è reso più difficile dai tentativi del marito di mantenere il controllo sulla sua vita, vessandola con telefonate e continui appostamenti, fino a prelevare la bimba dall’asilo, portandola con sé senza aver avvisato la madre. Il rapporto tra la bambina e la madre è parimenti complesso e spesso l’affetto si alterna ad episodi di terribili ripicche e insofferenza.
Molti dei passaggi del romanzo di Yuko Tsushima richiamano alla memoria un’opera di poco precedente, lo splendido manga di Kazuo Kamimura Il club delle divorziate (edito di recente in due volumi da J-Pop manga). Noto anche all’estero per la sua incredibile sensibilità nel tratteggiare l’interiorità femminile, Kazuo Kamimura fu uno dei tanti interpreti letterari che innestarono nel mondo culturale dell’epoca la prorompente novità dell’emancipazione femminile, di cui il crescente numero di divorzi (in realtà legali sin dalla Costituzione del 1873, ma raramente voluti dalle donne per il forte stigma sociale conseguente) era una spia.
Lo stretto rapporto tra queste due opere – unite dalla pubblicazione a puntate, dalla volontà di raccontare senza reticenze né abbellimenti la psiche femminile, simili persino nella specificità di alcuni episodi raccontati – sottolinea come il manga sia parte complementare e integrante della letteratura giapponese; una tra le poche caratteristiche a non variare (anzi a rafforzarsi) con la rivoluzione dei due Murakami negli anni ’80. Un rapporto per cui non esiste né prima né dopo, ma solo un continuo “insieme”.
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