Facile amare Green Book, l’ultimo film di Peter Farrelly che ha trionfato al Festival di Toronto vincendo il People’s Choice Award.
Qui Farrelly dirige solo, senza il fratello Bob in coppia col quale aveva segnato la commedia finto-demenziale anni 90/inizio 2000 grazie a Tutti pazzi per Mary, Amore a prima svista e Fratelli per la pelle. E sforna una pellicola che trova il giusto equilibrio di sapori cinematografici nel dosare il dolce del comedy e l’amaro del dramma.
A spasso con Daisy guardato attraverso lo specchio: qui è un bianco a fare da autista. L’italo-americano Tony Lip (Viggo Mortensen) fa il buttafuori nella New York del ’62, ma il suo bilancio familiare con moglie (Linda Cardellini) e figli a carico ha bisogno di più entrate. A un big del jazz come il pianista Don Shirley (Mahershala Ali) serve uno chauffeur per una tournée nel sud degli Stati Uniti, uno che possa fargli anche da guardia del corpo in caso di episodi di odio razziale.
L’affare è presto fatto, con un cachet interessante e la promessa di essere a casa per Natale. L’amicizia si costruirà strada facendo.
La disarmante semplicità di Green Book, che prende il titolo da quel libro verde pensato anni fa per viaggiatori di colore on-the-road e utile a trovare luoghi friendly ed evitare problemi, nasce dal mélange di realtà, buoni sentimenti e onestà narrativa. Ispirato a una storia vera, l’amicizia finisce per essere ritratta con tonalità ancora più vivide perché interrazziale e proprio con gli USA retrogradi di cinquant’anni fa come sfondo.
In tutto il film, facendo esplodere la metafora, il verde è spesso la tonalità dominante: la fotografia di Sean Porter (che ha curiosamente al suo attivo anche Green Room del 2015) declina il colore in tantissime nuance: oltre ai campi e alla natura ci sono le luci acide dei locali notturni e delle loro insegne, la Cadillac verde acqua tendente al turchese su cui viaggiano Tony e Don e, a fine film, le ghirlande e gli alberi di Natale.
Il film è di facilissima digestione, un piacere per gli occhi dello spettatore, pur in una narrazione dai toni sofisticati che evita i cliché con più cura di quanto sembri.
L’unico rimpianto, in corso di visione, è una sottile patina ruffiana, dai toni rassicuranti, che rende il risultato a tratti compiacente. In più si aggiunge il fatto che, per lo spettatore italiano, la visione può risultare fastidiosa in più punti: lo stereotipo di un’Italia rozza e devota al cibo come a una religione, rappresentata da emigrati dall’accento improbabile dediti al nepotismo, è qualcosa che non vorremmo più vedere. Per una volta, forse, il doppiaggio farà giustizia quando Green Book arriverà sugli schermi italiani: gli interpreti dei parenti di Tony, infatti, scandiscono battute in italiano in maniera ridicola. Persino un poliglotta come Viggo Mortensen suona risibile nel suo tentativo di imbastire un accento del sud Italia. Difetti che lo spettatore americano non nota, ma che nella visione in originale sono come il gesso sulla lavagna per l’orecchio di casa nostra.
E’ una fortuna che, almeno, il film resti fedele a se stesso nel suo procedere verso un finale in cui sono i semplici a saper convivere davvero con la diversità. Il rientro a casa per Natale, in una New York gelida ma dal cuore caldo e con poliziotti campioni di civiltà se paragonati a quelli degli stati del Sud, chiude il cerchio senza sbavare: a tavola non ci sono differenze di nazionalità né di colore.
Accento a parte (di nuovo, a Hollywood non ci faranno caso), Mortensen scolpisce il ritratto di Tony Lip con il consueto mimetismo: mette su peso e si immerge nel ruolo del padre di famiglia, ma contro cui è meglio non mettersi, con poderosa fisicità.
Nel primo ruolo da star dopo l’Oscar per Moonlight, Mahershala Ali mixa l’aplomb sofisticato del musicista e la rabbia repressa del discriminato, in totale controllo dell’emotività inespressa di un Don Shirley che può essere applaudito da una platea di bianchi, ma che non può usare i loro bagni né cenare nei loro ristoranti.
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