Non è un mistero che due tra i più oscuri e interessanti film usciti quest’estate nelle nostre sale, ossia Il Sacrificio del Cervo Sacro (Yorgos Lanthimos, 2017) ed Hereditary: Le Radici del Male (Ari Aster, 2018), siano riletture più o meno fedeli dell’Ifigenia in Aulide (Euripide, 406 a. C.), celebre tragedia greca che racconta il dramma di Ifigenia, figlia di Agamennone e Clitemnestra, destinata al sacrificio per colpa del padre che, durante una battuta di caccia, aveva arrecato offesa alla dea Artemide e ora si vedeva impossibilitato a salpare con le sue truppe alla volta di Troia. Ingannata e condotta nelle mani del suo aguzzino, poi colta da improvvisa illuminazione e senso del dovere, Ifigenia decide di accettare il proprio destino e immolarsi per la salvezza della famiglia e della Patria. Durante il sacrificio, però, colpita dal coraggio di Ifigenia, Artemide sostituisce il corpo della ragazza con quello di una cerva, salvandole la vita.

Naturalmente l’opera di Euripide rappresenta solo uno spunto che, nei modi e nei termini di impiego da parte dei due film, finisce per assumere profili diversi, quando non del tutto asimmetrici. Se, infatti, Il Sacrificio del Cervo Sacro resta in qualche modo più aderente al testo d’origine, prestandosi a un trasferimento (di metafora) preciso dove a mancare, in maniera piuttosto significativa, è “solo” l’intervento divino, il deus ex machina capace di risolvere la quaestio – assenza che rimette la responsabilità delle sventure e il destino nelle inaffidabili mani degli uomini – in Hereditary la trasposizione appare falsata, ribaltata in modo tale che se la figura divina è mantenuta, essa serve ad affossare – più che salvare – l’umanità, modificando così il ruolo e la funzione del destino (imparziale e catartico) in una diabolica condanna (iniqua e soggiogante).

Questo fa sì che mentre il film di Lanthimos appaia più vicino al dramma e al racconto a tesi, prestando il fianco a interpretazioni più o meno rigide o manichee, il film di Aster si esprima meglio attraverso il cinema di genere (l’horror), adottando soluzioni narrative più ambigue e inverosimili. Insomma, Il Sacrificio del Cervo Sacro è una metafora (del male causato e delle relative responsabilità) nella misura in cui sottrae una figura importante (la divinità) alla tragedia di Euripide, mentre Hereditary si serve della stessa divinità (qui cambiata di segno) per farne metafora della malattia mentale (la possessione demoniaca) e del relativo fattore genetico (la maledizione gravante), in cui le colpe tornano ad essere senza soggetto e le responsabilità suggestioni più intimamente laceranti che chiaramente attribuibili. Di conseguenza anche la figura del deus ex machina torna ad avere un ruolo all’interno della storia, anche se l’intervento si rivelerà tutt’altro che salvifico (per i personaggi), ma comunque risolutorio nell’ottica spettatoriale – interessante, a tal proposito, è la soluzione adottata da Aster che, nel mettere in scena l’avvento del deus opta per un’ascensione piuttosto che una discesa, rimarcando il ribaltamento di segno che coinvolge il divino e le sue sacre origini.

Insomma, nonostante il sacrificio assuma un peso rilevante per entrambi i film, il rapporto che esso intrattiene con la responsabilità appare essenzialmente diverso. Se ne Il Sacrificio del Cervo Sacro la natura della colpa è simile a quella descritta nella tragedia di Euripide, ossia scaturisce dalla presunzione del singolo di sostituirsi al divino e porsi al di sopra delle leggi, in Hereditary essa è, come il peccato originale, congenita e latente. Se il primo è un sacrificio per eccesso di arbitrio, il secondo lo è per difetto di arbitrio. Il primo ha a che fare con la mania di grandezza (individuale), il secondo con l’handicap della malattia (familiare).

A tal proposito un altro interessante aspetto da considerare è la messinscena dei due film che, altrettanto coerentemente, pare avvalorare la natura e il peso delle responsabilità. Attraverso le inquadrature e i movimenti di macchina che, in modo similmente straniante e manieristicamente kubrickiano, descrivono gli ambienti e il rapporto che questi intrattengono con il mondo interiore dei personaggi, è possibile identificare la fonte del punto di vista (distante, stabile e metodica per Il Sacrificio del Cervo Sacro e insinuante, fluttuante e incerta per Hereditary). Non si tratta di semplici e fortuite differenze di genere, ma di vere e proprie scelte espressive che, nella presentazione e nell’indagine dello spazio, denunciano il potenziale di perturbabilità e la presenza o meno dell’alterità.

Se ne Il Sacrificio del Cervo Sacro il potenziale di perturbabilità è altissimo, grazie all’uso dei particolari tagli di inquadratura, dei flemmatici movimenti di macchina e dei tagli netti di montaggio, mentre la presenza di un’eventuale alterità è annullata dalla caratura degli interpreti e dalla saturazione del campo a opera dei personaggi; Hereditary lavora in senso contrario offrendo uno scenario immediatamente e irrimediabilmente compromesso, a partire dai volti e dai gesti dei personaggi fino alla descrizione sinistra degli spazi che essi abitano, puntando invece sull’aleggiante e costante presenza dell’alterità che, però, mai si palesa. Se l’approccio di Lanthimos agli ambienti e alle vicissitudini dei personaggi è in qualche modo simile a quello di Kubrick, alla cosmogonia del suo cinema, dove l’uomo resta al centro dei suoi successi e delle sue sventure, l’approccio di Aster è più precisamente quello di Shining e della sua atipica struttura di genere, in cui può esserci spazio anche per l’incomprensibile e il sovraumano.

La struttura circolare dei due film – proprio come nelle opere di Stanley Kubrick – fa de Il Sacrificio del Cervo Sacro ed Hereditary due formidabili esempi di come si possa trattare gli stessi temi in maniera diversa per arrivare al medesimo assunto: “Il sacrificio è la sola, vera perversione umana”.



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