Il problema dell’ambizione è che più è grande, più è cocente lo spaesamento che consegue la sua mancata affermazione. Ed è in questa condizione di sconsolata disperazione che troviamo Drogo Colombo, il protagonista di Un romantico a Milano, nelle prime pagine del volume. Bolso, scapigliato, gli occhi celati al mondo dalle lenti scure, e costantemente impegnato in un preoccupante dialogo interiore. Mentre Gipi, Pedrosa e gli altri suoi miti lo osservano attraverso le loro dediche appese al muro che sovrasta il suo tavolo da lavoro, Drogo si dice finalmente libero. Già, ma da cosa?
Stacco.
Fermo è seduto in cima alla Torre Velasca. Il suo dialogo non è del tutto interiore. Di fronte a lui c’è un gatto che gli risponde. Fermo vuole l’immortalità. Il gatto gli consiglia un salto. Non sarà l’unico modo per raggiungerla, ma è uno dei più sicuri.
Il ritorno di Sergio Gerasi (Lazarus Ledd, Dylan Dog, Mercurio Loi) per i tipi di Bao dopo In inverno le mie mani sapevano di mandarino è un’opera duale e molteplice, che parla di fama, di voglia di lasciare un segno, di insoddisfazione personale e artistica. Del senso della vita, che non si trova su Google, nemmeno cercando bene. E di Milano, dei suoi luoghi, delle sue persone e dei suoi luoghi da bere.
Drogo e Fermo sono due facce della stessa medaglia, o moneta, due vittime di se stessi e del successo, avuto o non avuto. Due momenti della stessa carriera. Gerasi gioca furbescamente con le percezioni del lettore e mentre i cockatil milanesi si accumulano il confine tra i due – due? – personaggi si assottiglia e si confonde – o forse si fonde?
Drogo è ormai solo, frustrato e arreso. Il suo lavoro da anonimo illustratore di libri per bambini è fonte di derisione da parte dei colleghi e persino del suo editore. La compagna l’ha abbandonato, stanca delle troppe scuse accampate per trascurare a trascurarsi. Persino Moka, il fedele gatto che l’accompagna dall’infanzia, potrebbe non essere il compagno di una vita che appare ai suoi occhi.
Il grosso problema di Drogo è che ha una spugna dentro con cui assorbe tutto. Persino l’ambizione. O i sogni, come quel mare, desiderio più grande in cui rifugiarsi seppur visitato un’unica volta da bambino. Eppure Drogo è immobile al punto di mettere radici, ben poco metaforiche. Il problema di Fermo invece è che non si ricorda più come sia arrivato quel successo, che prima appaga e poi svuota. Il suo volto di colpo è noto, riconoscibile anche da chi non l’hai mai sopportato e che proprio per questo pretende una dedica, o da qualcuna in cerca di una scopata con uno famoso, purché sia.
Per sfuggire ai suoi problemi, Drogo si aggira per i bar milanesi in compagnia eterea, ma palpabile dei fantasmi di coloro che hanno animato le notti e la cultura milanese del ‘900. Nei lunghi botta e risposta immaginari, Dino Buzzati, Alda Merini, Bruno Munari, Lucio Fontana e Pietro Manzoni diventano analisti e sponde con cui Drogo e Cerasi riflettono sul senso della vita e su cosa sia l’arte, rigorosamente bagnando le labbra in un cocktail ogni volta diverso, descritto con dovizia di particolari dagli ingredienti al bicchiere.
Fermo invece non se lo chiede più. Piuttosto che lasciarsi divorare dal foglio bianco, Fermo vaga. E vive. E rimanda quel secondo libro che dovrebbe garantirgli un posto nel pantheon del fumetto. Nel mentre il suo volto inizia ad essere sporcato da un filo barba, via via più folta, mentre i suoi capelli crescono in disordine e sul naso spuntano degli occhiali da sole.
Insieme ai piani temporali Gerasi sovrappone gli stili. Il tratto sporco con cui racconta il presente diventa acquarello rossastro nei flashback che riportano Drogo al mare e svelano perchè ne sia sempre rimasto lontano nonostante la fascinazione ossessiva. A supporto delle sue matite Gerasi può contare questa volta anche sui colori, realizzati in collaborazione con Marco Zambelli. I cieli apocalittici di Milano, che spaziano dal viola al grigio plumbeo passando per l’arancione atomico, influenzano le scene meneghine e ne filtrano le luci, condizionandone le atmosfere. Così se il giallo rende ancora più stranianti gli occhi spalancati di Piero Manzoni, basta una mezza tonalità in più verso il verde per suggerire l’autorità con cui un impeccabile Dino Buzzati prova a scrutare nell’animo di Drogo usando rigorosamente il “lei”.
In una Milano splendida e surrealista, mentre i percorsi ellittici di Drogo e Fermo attraversano l’assurdo e infine si incastrano, tutti i pezzi vanno al loro posto. Attraverso loro Gerasi parla del fallimento, della difficoltà di gestire il successo e della sua casualità in un mondo ancora alieno a certe dinamiche come quello del fumetto italico. E anche di sé, nemmeno troppo velatamente – il successo di Fermo si intitola In estate le mie mani sapevano di mare – forse per esorcizzare le difficoltà di questa sua seconda opera per Bao, che tuttavia in un lieto fine corale getta una tramonto di speranza sull’immobilismo di Drogo che fu Fermo, mentre celebra Gerasi tra gli autori più completi ed ispirati della casa editrice milanese.
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