C’è qualcosa di sconcertante nel sentirsi sminuiti a ciclo continuo in quanto lettori di fantascienza, genere che tra coloro che fieramente dichiarano di non praticarlo viene concepito – con l’ausilio di misteriose proprietà divinatorie – come la cosa non letteraria del gran circo dei generi letterari, giusto un gradino sopra del vituperatissimo romance.
Il palato fantascientifico sarebbe quindi una bocca buona, che si accontenta di sapori rozzi e basilari, insensibile alle prelibatezze della letteratura alta.
Leggendo Ready Player One viene da chiedersi dove sia tutto questo acume letterario dei di sopra scettici, che quando devono salvare un romanzo del comparto non solo incoronano un’opera la cui pochezza letteraria è palese, ma che è così problematica che si ha solo l’imbarazzo della scelta del punto debole da evidenziare impietosamente.
Ad onor del vero anche all’intero dei fattoni di fantascienza l’esordio letterario Ernest Cline i suoi estimatori li ha, ma stiamo pur sempre parlando di un pubblico che, ahimè, comprende anche sad puppies e fautori del Gamersgate. Provo però una viva e vibrante soddisfazione nel constatare, scorrendo la pagina dedicata su Goodreads, come il romanzo si becchi votazioni più che generose dai vicini generalisti, ma impietosi o lapidari stellinamenti dagli amici fantascientifici.
Lungi dal negare che nel 2010 Ernest Cline non abbia messo a segno un colpo letterario. Dopo aver a lungo tentato di entrare nel mondo del cinema in qualità di sceneggiatore (riuscendo comunque a vendere qualche script), il nostro deve aver pensato di provare ad entrare dalla porta di servizio: il principale pregio di Ready Player One è di essere un film in fase embrionale, raccontato a mo’ di romanzo ma chiaramente già strutturato per essere portato agevolmente su grande schermo. L’altro merito di Cline è quello di aver intercettato ancor prima degli studios la fame di anni ’80 che orientava le scelte di un bacino sempre più grande di utenti, unitamente al già ampiamente avvenuto sdoganamento della cultura geek come positiva, anche a livello mainstream. Il balzello che oggi sembra banale ma che otto anni fa era tutt’altro che scontato era quello di puntare sul comparto videoludico, narrandone i gloriosi inizi, esaltandone lo spirito cooperativo, ribelle e ingegnoso di chi quei giochi li creava e chi li giocava nel salotto di casa o in sala giochi.
I meriti di Cline però finiscono qui e, guarda caso, non afferiscono mai né al campo letterario né a quello fantascientifico. Anzi, stento a includere questo romanzo nella mia concezione di fantascienza, preferendo inserirlo nel nutrito gruppo di opere partorite sulla base dell’ottimistico presupposto del “ma che ci vuole a scrivere un libro di fantascienza”? Nel mondo reale da cui il protagonista Wade sfugge rifugiandosi in quello virtuale siamo nel 2045 ed è in corso un’imprecisata crisi petrolifera che ha portato il pianeta al collasso. Cioè Mad Max, ma con il wi-fi a portata di mano. Fossimo negli anni ’80 che tanto insegue ed esalta Cline, potrebbe anche bastare, ma nel 2010 l’esaurimento del petrolio è un po’ poco per giustificare un collasso tale, soprattutto se poi il protagonista attraversa gli Stati Uniti a bordo di veicoli semiautonomi ad energia solare e riesce sempre a reperire un allacciamento a internet, che non è proprio la tecnologia capace di resistere più a lungo agli sconvolgimenti apocalittici e ambientali del caso. Insomma, siamo alle solite: la verosimiglianza e la coerenza interna del mondo reale in cui si muove Wade sono flebilissime, perché di fondo all’autore importa del sostrato fantascientifico quel tanto che basta per avere uno sfondo figo su cui far succedere cose.
Passiamo dunque alla realtà virtuale in cui si svolge gran parte del romanzo, OASIS. Qui abbiamo un’idea ben più precisa di come una tecnologia videoludica per giocare in multiplayer si sia via via trasformata in un cardine della vita collettiva e sociale, dato che per problemi di sicurezza e per comodità congregazioni religiose, sistemi scolastici, attività commerciali e attività varie ed eventuali si sono trasferite in pianta stabile al suo interno.
Qui si aggira anche Wade, il protagonista sfigato pronto a diventare un eroe prototipico del film statunitense commerciale medio degli anni ’80, con cui siamo costretti a trascorrere un centinaio di pagine prima che si apra la Caccia all’Easter Egg nascosto in OASIS e il libro crei una certa dipendenza. Wade è il simbolo di tutto ciò che di scorretto e mal fatto si aggira per il romanzo, lo specchio cristallino della forma mentis del suo autore, rimasto non solo ai riferimenti culturali della sua adolescenza in un’eterna e talvolta ingiustificata nostalgia, ma anche alla filosofia e alla scala di valori di un mondo culturale che in 38 anni dovremmo esserci lasciati almeno parzialmente alle spalle.
Quel che è tragico di Ready Player One non è tanto la combriccola di partenza, pescata a piene mani da quell’immaginario: protagonista maschile e caucasico destinato ad essere il Migliore, amico spalla accattivante, due asiatici fighi e ragazza abbastanza nerd per essere degna del nostro eroe. Il fattore disperante è che il medesimo gruppo è anche il punto di arrivo: non c’è alcuna riflessione o tentativo di evoluzione a partire da un concetto così datato di personaggi e interazione tra gli stessi, anzi. I loro sbilanciatissimi rapporti di forza sono esplicitamente vissuti come una sorta di equilibrio ideale. Certo, sul finale Cline un dubbio se lo fa pure venire e infila una paraculissima svolta pseudofemminile, pseudoqueer e pseudoinclusiva, ma ci crede così tanto che il personaggio che ne viene investito continua ad essere descritto come nella prima parte del romanzo, come se il suo vero valore non fossero le sue differenze, ma la sua capacità di camuffarle.
È proprio attraverso la Caccia all’Easter Egg che Cline dimostra tutta la sua superficialità e fornisce indirettamente una lettura ben più interessante del contenuto della sua stessa opera. Il ricchissimo fondatore di OASIS, Halliday, alla sua morte ha aperto una gara alla sua miliardaria eredità. Per ottenere il controllo di OASIS e le sue sterminate ricchezze basterà trovare tre chiavi nascoste da qualche parte nella sua creatura, aprire altrettante porte e arrivare all’Easter Egg. Subito si scatena una corsa all’Uovo e si creano due fazioni: quella dei gunther (egg hunter), aderenti alla scala di valori di Halliday, e quella dei dipendenti della 101, la malvagissima corporazione di turno che vuole acquisire il controllo di OASIS per limitarne le libertà e aumentare il profitto, abolendo l’anonimato garantito agli avatar e imponendo un abbonamento mensile per accedervi.
Il punto è: quali sarebbero queste libertà? OASIS è un mondo così anarchico, libero e ribelle come proclamato da Halliday? Sfioriamo il ridicolo e il paradossale considerando che Wade passa il primo centinaio di pagine incensandoci il suo eroe (di cui studia ossessivamente vita e opere) ma lamentandosi di non avere un soldo per esplorarne la realtà virtuale. OASIS è di fatto un app freemium: l’ingresso è gratuito (a patto di avere un visore, dei guanti aptici e una linea internet, s’intende) ma per fare qualsiasi altra cosa è necessario del denaro reale da utilizzare al suo interno: il pianeta d’accesso è infatti costellato di negozi d’abbigliamento e accessori, un gigantesco centro commerciale virtuale in cui di fatto si può solo spendere del denaro. Per giocare o cercare gli indizi di Halliday bisogna teletrasportarsi altrove, ma i trasporti sono tra gli elementi più cari di OASIS, quasi che la crisi energetica si stia svolgendo dentro la realtà virtuale.
Di fatto Wade risolve il primo enigma che riapre dopo anni di silenzio la gara per un’incredibile coincidenza unita a una considerazione ancora più stuzzicante e sinistra: Halliday è l’eroe problematico o il vero cattivo della storia?
Nel corso del romanzo Cline si premura di tingere la sua figura leggendaria di salvatore dell’umanità e idolo di una generazione con l’ombra di problemi psicologici seri, che di fatto lo rendono un disadattato sociale. Non un rigo però viene speso per analizzare il perverso sistema ideato da Halliday in quella che di fatto è una caccia al proprio erede. Soprassedendo all’autentica follia di mettere a disposizione di ogni pazzo furioso il controllo di un sistema che è diventato essenziale per il buon governo e funzionamento sociale dell’intero pianeta, su cosa si basa la Caccia? Sulla conoscenza dei capisaldi culturali e pop degli anni ’80? No, sulla conoscenza enciclopedica dell’interpretazione che degli stessi dà Halliday.
La Caccia non è una gara di amore per gli anni ’80, è un folle culto personalistico di quello che è forse il più efficace alter ego di Steve Jobs di sempre. Ognuno dei tre enigmi che costituiscono la gara non si può risolvere a partire dalla conoscenza di film, videogiochi e musica dell’epoca d’oro del pop: la Caccia è concepita per mettere alla prova gli eredi di Halliday, per testare l’aderenza quasi religiosa alla filosofia del fondatore di OASIS. Infatti dove va pescato il primo indizio per arrivare alla porta numero uno? Nelle mille e passa pagine della delirante autobiografia di Halliday stesso, che esige che i suoi eredi non solo conoscano i prodotti culturali che ha amato letteralmente a memoria, ma che condividano con lui il giudizio sugli stessi, pena l’impossibilità di superare le prove verso l’Uovo. Ready Player One è affascinante e intrigante solo in quanto involontaria ma potentissima metafora del capitalismo statunitense inteso come culto personalistico del tycoon di turno. La ciliegina sulla torta è che tutta questa enorme zona moralmente grigia pare essere del tutto sconosciuta al suo stesso creatore, che solo sul gran finale pensa sia una buona idea distanziare il suo protagonista da una figura tanto problematica, in nome di un messaggio se possibile ancor più tragicomico e datato: ok la realtà virtuale, ma la vita vera è quella là fuori, dove puoi limonare la tua tipa. Sipario.
Per approfondire l’improvvisa ondata di critiche piovute sul romanzo un tempo incensato a furor di popolo, vi consiglio la lettura di questo splendido pezzo su Vox.
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Ciao, mi sembra di capire che tu abbia letto il libro dopo aver visto il film e , secondo me, questo ha influenzato parecchio questa recensione.
Alcune cose che hai scritto sono assolutamente condivisibili, però non dimentichiamoci che è comunque il primo romanzo di Cline (se non fosse fallita la ISBN forse avremmo anche il secondo in italiano, Armada) e non vuole essere il nuovo Asimov o Dick. Qualche incongruenza nella logica gliela concediamo.
Personalmete l’ho trovato appassionante, ovviamente nostalgico e scritto in modo semplice. E infatti leggendolo mi sono immaginato un mondo totalmente diverso da quello che ho visto nei trailer del film, che mi ha dato l’impressione di uno Star Wars mischiato ad Avatar con la Delorean giusto per attirare i “vecchi nostalgici”. Capisco che nel 2018 ritrovare lo sguardo del bimbo che vede ET è impossibile però forse dare un po’ più di anima alle storie non sarebbe male.