1983: il diciassettenne Elio, abile musicista e persona colta e sensibile, trascorre le vacanze estive nella villa di famiglia. Il padre, un professore universitario, come ogni anno ospita uno studente straniero, l’attraente Oliver, per lavorare alla sua tesi di post dottorato. I due ragazzi, tra un’escursione in bicicletta e una nuotata, si innamorano…
Strano destino, quello di Luca Guadagnino: ignorato, se non apertamente sbertucciato nel nostro Paese, amatissimo negli USA, dove Chiamami con il tuo nome non solo ha ricevuto critiche entusiastiche ma ha anche incassato parecchio, per una pellicola di questo genere. Ed è comprensibile: Guadagnino fa, da sempre, film “internazionali” che hanno, almeno in potenza, un respiro più ampio rispetto a quelli “due camere, cucina e bagno senza finestra” tipici dello strapezzente cinema italiano. Il punto è che, come capita sempre più spesso ad un altro regista che ama più la forma del contenuto, Paolo Sorrentino, il motivo di tanto compiacimento sta proprio nel fatto che Guadagnino crea un prodotto ad hoc per il pubblico di intellettuali a stelle e strisce: ricco, illuminato, politically correct, etc.etc. . Non che ci sia nulla di male in tutto questo, ovvio, anzi, che un italiano emerga in un mercato così difficile come quello americano è cosa rara ed encomiabile. Detto ciò però, Chiamami con il tuo nome sembra più un sofisticato esercizio di stile che una travolgente e appassionata storia d’amore.
La ricostruzione dell’Italia degli anni ’80 è, almeno formalmente, perfetta: location, abiti, automobili, canzoni alla radio, ogni cosa sta dove ci ricordiamo che stesse. Non appena però si prova, molto maldestramente, a contestualizzare il tutto secondo altri canoni (la politica, ad esempio), lo script naufraga in una oceano di banalità. L’excursus “craxiano”, ad esempio, già di difficile decodifica per il pubblico nostrano, visto che son passati 30 anni, agli occhi di uno straniero non aggiunge nulla alla narrazione e resta lì, sospeso, alla ricerca di una motivazione plausibile per la sua presenza.
Anche i rapporti intercorrenti tra tutti i personaggi, esclusi i due protagonisti, potrebbero essere eliminati di colpo, senza che la progressione degli eventi ne risenta in alcun modo: i genitori di lui, le ragazze del gruppo, gli amici, i conoscenti, tutti appaiono satelliti piccoli e invisibili, nascosti dall’ombra dei due pianeti attorno al quale ruota la storia. Anche tra i protagonisti però, va fatto un distinguo: mentre Timothée Chalamet è bravissimo a conferire al suo Elio Perlman mille sfaccettature e a rendere visibile e tangibile il flusso di sentimenti contrastanti che tormentano il personaggio, l’altrove valido Armie Hammer si limita a fare atto di presenza (e che presenza, verrebbe da dire) ma risulta fin troppo algido e distratto.
A Chiamami col tuo nome manca completamente il pathos di pellicole simili e recenti come Carol, Tangerine, Weekend e persino Moonlight (quest’ultimo peraltro premiato incomprensibilmente con l’Oscar l’anno scorso) o di classici quali My Beautiful Laundrette, Beautiful Thing o Happy Together. Può darsi che il lavoro di riscrittura operato sulla sceneggiatura di James Ivory (adattamento del romanzo omonimo di André Aciman) abbia depotenziato gli aspetti drammatici della vicenda, ma nel raccontare la vicenda di Oliver e Elio c’è troppa attenzione alla forma, impeccabile ma asettica, e poco al sentimento vero e proprio.
Insomma, sicuramente a molti piacerà, ma qui preferiamo di gran lunga i rozzi, inguardabili ma sinceri bifolchi di Ebbing, protagonisti fittizi di un cinema vero, duro e puro, con bei dialoghi, bei personaggi e script solidi come il granito, invece di questa effimera nuvola di puro edonismo.
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