Ridendo e scherzando siamo giunti a metà di quella che ormai pare, più che la terza e ufficiale stagione di Twin Peaks
Lungo questi dieci episodi la storia è entrata e uscita più volte da quei luoghi statuendo, pur nell’irriducibile inquietudine e follia, una familiare tranquillità. Quando ci si ritrova a Twin Peaks ci si sente in qualche modo al sicuro, come se il male vi si fosse abbattuto come una calamità naturale e un suo imminente ritorno fosse quantomeno improbabile. La natura travolgente dell’oscurità, che si sposta nel tempo e nello spazio in maniera piuttosto lineare – come rivela, pur con le sue astrazioni, l’ottavo episodio – rendono Twin Peaks
Quello che però forse importa capire, al di là delle suggestive composizioni retoriche e delle peculiari scelte estetiche, è se il controllo su una narrazione così articolata e distribuita possa in qualche modo sfuggire di mano al suo autore, prestando il fianco a eventuali stalli e incoerenze, fonti di incomprensioni che potrebbero – se non l’hanno già fatto – mortificare e allontanare anche il più curioso degli spettatori. La sceneggiatura seriale ha ragioni che quella cinematografica non ha, e se meglio riesce a smarcarsi dagli ingorghi causati da tempi morti e vuoti narrativi, poiché nel suo complesso si rapporta con una memoria spettatoriale più labile e sovraccaricata, risulta anche meno efficace quando si tratta di dover mantenere alta l’attenzione, condizione che può rendere pericolosa una rarefazione dei significati sempre più ardita.
Eppure, quando con l’ottavo episodio Lynch abbandona la narrazione di genere/i cui, fino a quel momento, ci aveva abituati, il cambio di (messa in) scena non sembra rivelarsi così sconvolgente e innovativo. Nel rappresentare l’origine del male e la nascita di Bob, in un ensemble audiovisivo puramente evocativo, fatto di simboli e simbologie, citazioni e riferimenti, Lynch pare volersi crogiolare in un immaginario da cinema sperimentale – in cui riecheggiano Maya Deren e Hans Richter – tanto affascinante quanto, ormai, obsoleto e sclerotizzato. Un ricorso all’antinarrazione in un momento storico in cui tutto è e tende inevitabilmente all’accumulo ipertestuale. Ma forse è anche un gioco, una costruzione che, mentre inscena un evento epocale nella cosmogonia di Twin Peaks
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