La saudade dell’esule giapponese si manifesta spesso con più forza in campo botanico. Aki Shimazaki vive e scrive Montreal, in una nazione che certo non è povera di distese incontaminate di natura alla stato originario, eppure in molte interviste lamenta di sentire la mancanza del profumo del fiori e delle piante giapponesi nell’aria.
Ai tanti turisti che affollano le megalopoli giapponesi potrà sembrare paradossale ma per l’autrice (nata a Gifu nel 1954 ma trasferitasi in Canada negli anni ’80) e per tanti altri migranti nipponici può essere difficoltoso vivere lontano dal calendario naturale giapponese, quello dettato dai cicli di fiori, piante e fauna, interiorizzato dai gesti della tradizione stessa della nazione. Nel Sol Levante infatti c’è sempre stata una grande attenzione al fluire delle stagioni e al momento in cui è appropriato indossare, mangiare, pulire o leggere qualcosa. Nella tradizione poetica giapponese degli haiku è considerato armonico e lirico inserire almeno un kigo, ovvero un elemento naturale che rimandi chiaramente a uno specifico momento dell’anno.
Tsubaki, Hamaguri, Tsubame, Hotaru e Wasurenagusa sono i cinque kigu che hanno ispirato l’autrice nella composizione di altrettanti romanzi tra il 1999 e il 2005, raccolti in una sorta di omnibus
Infatti, pur scrivendo in francese, Aki Shimazaki è molto più vicina alla tradizione letteraria giapponese dei due autori citati, che negli anni ’90 hanno incarnato una sorta di sperimentalismo e punto di rottura proprio con il canone di fiori stagionali e segreti familiari, finendo beffardamente per diventare loro stessi un’etichetta, un’antonomasia sin troppo riduttiva.
Forse è a questa scarsa familiarità con le espressioni tradizionali del “romanzo giapponese” che si deve il florilegio di recensioni che definiscono il libro come delicato, delicatissimo (probabilmente da pronunciarsi a là René Ferretti) e l’insistenza sul presunto topos dell’amore incestuoso nella tradizione culturale del Sol Levante, incuranti di quanto sia radicato anche nella nostra, da Zeus con Era fino a Luke con Leila.
Il peso dei segreti
Partendo dal ritorno delle rondini e dal fiorire dei nontiscordardime, Aki Shimazaki svela a poco a poco la corolla del segreto dei segreti, che finisce per unire ben tre generazioni di personaggi. Si comincia con Yukio e Yukiko, adolescenti e vicini di casa quando Nagasaki si appresta ad essere distrutta, si torna indietro nel tempo con le storie della madre di lui Mariko, scampata al disastroso terremoto del 1923, e con il padre adottivo Takahashi, che per stare vicino alla donna e al fanciullo rinuncia ai legami con la sua ricca e influente famiglia. Ritroveremo questi quattro personaggi, ormai giunti al termine della loro vita o sopravvissuti nella memoria del loro cari, attraverso i capitoli narrati dalla figlia di Yukiko e dalla nipote di Mariko, nel momento in cui il Giappone si ritrova a fare i conti con il proprio passato poco conosciuto di carnefice durante la Seconda guerra mondiale, con le persecuzioni dei coreani residenti nell’arcipelago e i massacri compiuti negli anni ’30 nelle colonie.
Le due famiglie sono unite da legami molto più profondi da semplici rapporti di vicinato e in particolare dallo strapotere che un personaggio apparentemente colto, elegante e affettuoso esercita sulle vite degli inconsapevoli astanti. Aki Shimazaki però non gli regala nemmeno la possibilità di spiegarsi, concentrandosi sui giorni comuni diventati straordinari perché la storia che bussa alla porta oppure la scoperta di inconfessabili segreti familiari li rendono tali. Lo scorrere ondivago e morbido della cronologia del romanzo porta i climax della storia personale e nazionale a coincidere. Il lettore si trova quindi spesso a ripercorrere i medesimi istanti a distanza di molti capitoli, sotto una prospettiva o una consapevolezza del tutto nuove.
Certo non è sempre semplice tenere il ritmo di questo continuo capovolgimento di identità e questo susseguirsi di colpi di scena, che l’autrice controlla fino a un certo punto. In questo senso la scelta di Feltrinelli di pubblicare in un unico volume l’intera pentalogia aiuta molto il lettore, ma anche i più avvezzi ai nomi giapponesi avranno bisogno di qualche momento per capire, tra un capitolo e l’altro, chi sia chi e quale peso di segreti inconfessabili si porti appresso.
Un’altra scelta che personalmente ho trovato non giovasse al ritmo di lettura è la decisione (immagino ereditata dall’originale in francese) di lasciare molti termini in lingua originale, con glossario a fine volume. La pratica è abbastanza consueta per lemmi intraducibili come tatami e obon, ma non credo che il romanzo avrebbe perso di autenticità se parole come “bullismo” o “terremoto” fossero state tradotte.
L’abilità di Aki Shimazaki è però riconducibile alla sua capacità di rievocare con precisione e estrema scorrevolezza, in uno stile piano e pulito, quell’atmosfera intima tipica dei romanzi giapponesi. Forse i due gusci degli hamaguri (vongole giapponesi) combaciano un po’ troppo perfettamente, con una serie di parentele segrete che ricordano certe trame da soap, ma il tocco di Shimazaki è così elegante da nobilitare anche queste esagerazioni.
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