Mark Renton è tornato in città. 20 anni dopo la fuga e la “scelta di vivere”, l’antieroe del primo Trainspotting si ritrova nuovamente ad Edimburgo, dove pare che nulla sia cambiato, almeno in apparenza. Spud è ancora alle prese con la droga, Sick Boy vive nell’illegalità ricattando borghesi con filmati porno e Begbie è in carcere (ma sta per evadere…). Tutto bene quindi? Ovviamente, no.
Nemmeno troppo silenziosamente son già passati vent’anni da Trainspotting, film “culto” (termine che oggi può essere declinato in mille modi diversi e viene spesso utilizzato a sproposito, ma che almeno per l’opera seconda di Danny Boyle ha un suo perchè) capace di segnare in modo indelebile il cinema e la musica degli anni ’90. Molte cose sono cambiate da allora, ma a quanto pare non i protagonisti della saga, che, segnati dal tempo e dalla vita, si ritrovano al punto di partenza, confermando l’assunto che molto spesso l’esistenza che viviamo ha un perimetro piuttosto stretto, costruito attorno a poche, fragili mura (amore, odio, amicizia, famiglia, lavoro) e impermeabile a quello che succede nel mondo.
I cult, per definizione, non hanno seguiti, diventano atemporali e vivono in un mito capace di autoalimentarsi, in parte grazie alle nuove generazioni di spettatori, spesso ciniche, critiche e impermeabili alla nostalgia, e soprattutto grazie a coloro che, in un passato remoto, vennero colpiti e affondati da uno sguardo, una battuta, una sequenza o una canzone. Cos’è quindi, T2? Sicuramente un’operazione commerciale che parte da Porno, romanzo “sequel” di Irwin Welsh, per arrivare a una versione “riveduta e corretta” dell’opera originale, priva del suo fascino sbarazzino e irriverente ma non per questo detestabile. Anzi.
Boyle si muove sicuro e guascone tra originalità (non molta ma capace di colpire ed emozionare quando tocca le corde giuste) e fan service (percepibile ma mai invadente). Il citazionismo può esasperare, chiaro, ma è uno specchio che serve al pubblico vecchio e nuovo per capire quanto e come relazionarsi con i personaggi che, pare chiaro fin dalle prime sequenze, hanno compiuto ben pochi passi nel loro “percorso”, rimanendo sostanzialmente fermi mentre la vita passava loro davanti.
Proprio questa staticità e per certi versi regressione, questa incapacità di “abbracciare la vita” rappresenta il fondamento del film, che per tutta la sua durata svaria tra generi diversi, dalla commedia al thriller, dal dramma all’action, senza soluzione di continuità. Cosa facevamo noi spettatori, vent’anni fa? Dov’eravamo, dove siamo arrivati? Irridiamo i protagonisti che paiono percorrere un loop infinito che li porta sempre alla posizione di partenza ma noi, nella vita vera, abbiamo fatto passi avanti o indietro? La nostalgia indotta da T2 non è consolatoria, tutt’altro: e se il film si chiude tutto sommato “meglio” di quanto non facesse l’originale, c’è comunque poco da gioire.
T2 è interessante anche perchè permette di “fare la tara” anche al terzetto di attori protagonisti che, ai tempi, vennero tutti indicati come grandi promesse della cinematografia mondiale (Robert Carlyle era adulto e già celebre). Conti alla mano non ci sono veri perdenti: Ewan McGregor ha avuto più alti che bassi, ora è anche regista ed è invecchiato come meglio non si potrebbe, Jonny Lee Miller e Ewen Bremner hanno avuto un decente carriera e “tengono botta” (qui letteralmente).
Insomma, come tutti i sequel più o meno dichiarati, T2 non era indispensabile, però esiste: per molti sarà una trascurabile per quanto godibile commercialata, per altri sarà un modo per fare un salto indietro di vent’anni e per pochi un’occasione di riflettere su quanti passi falsi e contestuali ripartenze abbiano effettuato durante la propria vita.
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