Qualche mese fa mi sono trasferito. Vestiti, libri e fumetti mi hanno seguito in una valanga di scatoloni. Zelda, la gatta che ha vissuto con me negli ultimi anni, è invece rimasta tra le vecchie mura che ci ospitavano. È stato strano non averla più intorno, non sentirla reclamare le mie attenzioni durante le serate di lavoro davanti al PC. Persino non svegliarmi nel cuore della notte per cercare di capire se volesse uscire o fosse solo in cerca di qualche carezza e due croccantini.
Nelle ultime settimane, per qualche ora, di sera, Trico è riuscito a riempire quell’assenza.
Mentre cercava di segnalarmi la strada, mentre mi seguiva trotterellando o mentre provava a colmare il ponte comunicativo che ci separava, Trico è stato Zelda (parlo sempre della mia gatta, e se vi è venuto il dubbio, verrà ampliamene fugato tra qualche paragrafo).
Credo non ci sia modo migliore per descrivere il traguardo raggiunto da Fumito Ueda.
(Sapete chi è Ueda, vero? Il designer che ha curato la produzione di Ico, Shadow of the Colossus e, appunto, The Last Guardian, il gioco in cui Trico, una sorta di enorme gattone piumato dalle zampe artigliate, ruba il ruolo di protagonista al giocatore. Beh, se non lo conoscete lascio che sia il bravo Iago Menichetti a introdurvelo col suo articolo pubblicato da Prismo, poi ci rivediamo qui tra poco.)
Rieccoci. Dicevo, non si potrebbe fare un complimento più grande all’opera di Ueda. Trico è semplicemente il personaggio più importante ed imponente che questa generazione si lascerà alle spalle. Un risultato raggiunto senza dire una sola parola, ma limitandosi a versi e grugniti – un po’ come il Tom Hardy della prima mezz’ora di Mad Max.
Le situazioni in cui Trico decide in piena autonomia di fare qualcosa di totalmente ininfluente per l’economia del gioco, magari calamitando di colpo tutto il tuo interesse su un dettaglio marginale dello scenario, sono molte di più di quanto abbia senso raccontare. Quella strana bestia, atroce e tenera, che giochicchia con una catena penzolante o si intestardisce a fissare un dettaglio ignorando ogni nostro tentativo di coinvolgerlo nell’azione, abbandona quasi immediatamente il ruolo di elemento del gioco per diventare lui stesso il gioco.
La sua funzione nella progressione è multiforme ed evidente fin dai primi passaggi. Semplificando fino alla radice, Trico è un NPC – un personaggio non giocante – la cui esistenza è finalizzata ad offrire aiuto al giocatore in situazioni di gioco ben precise, disegnato e programmato per nascondere questa sua natura funzionale dietro le sembianze di un essere vivente con una volontà propria, indipendente da quella del giocatore verso cui, comunque, tende a costruire un legame nel corso dell’avventura.
È un meccanismo chiaro praticamente subito a chiunque abbia una qualche confidenza col videogioco. Eppure se The Last Guardian ha riscosso questo successo trasversale, attirandosi persino simpatie che trascendono le consuete barricate che dividono i giocatori di console in fazioni, il merito è di Trino. Perché The Last Guardian non sarebbe ciò che è senza Trico. Intendo dire che qualunque altro personaggio, anche assolvendo identicamente alla stessa funzione, senza quel cumulo di programmazione e animazioni che ha generato una naturalezza artefatta, ma vera, The Last Guardian Sarebbe semplicemente divorato dai suoi difetti.
Che ci sono e non si nascondono nemmeno. Ma arrivano dopo. Dopo il lavoro di animazione, nel senso più totale del termine, compiuto su Trico, ma anche dopo la sensazione quanto mai rara di trovarsi di fronte a un prodotto che nasce con l’intenzione di veicolare un messaggio del suo autore e intorno a questa volontà viene costruito tramite il lavoro di squadra di un team, come avviene per la maggioranza degli altri prodotti culturali al di fuori dei videogiochi.
The Last Guardian è perfettamente inquadrabile da subito come un gioco di Ueda dalle tematiche che tratta e da come le tratta. C’è la dualità, il compagno di viaggio, il rituale, la corruzione della propria natura, ci sono i colossi e le architetture decadenti, fuse questa volta in un unico gigantesco scenario da scalare e attraversare. C’è insomma tutto quel percorso di crescita che passa attraverso Ico e Shadow of the Colossus per giungere a una padronanza del mezzo tale da permettersi il rigetto delle più canoniche convenzioni del linguaggio.
I barili luminescenti restano una delle poche convenzioni accettate. Quasi ogni altro elemento invece è disegnato contro-intuitivamente rispetto alle regole di design a cui l’industria ha abituato il suo pubblico negli ultimi anni. The Last Guardian non spiega, ma rende possibile – e per fortuna, perché quelle enormi didascalie che suggeriscono l’azione che è possibile eseguire nei primissimi frangenti di gioco sono un bel pugno in un occhio.
È quasi stordente aggirarsi dopo anni in ambientazioni che non rispettano lo schema classico del luogo digitale, dove è possibile distinguere la via maestra, la zona dell’agguato e il sentiero segreto che nasconde un oggetto raro alla prima occhiata. La prima volta che ci si incammina lungo un vicolo cieco che non ha nessuno scopo se non quello di offrire un nuovo scorcio a chi ci sia avventura viene istintivo pensare di aver sbagliato qualcosa. I rari segni lasciati a indicare il percorso giusto si perdono nel contesto di un costruzioni erette secondo principi universali, ovvero che non devono per forza evidenziare la via percorribile al giocatore attraverso trucchetti da quattro soldi. Se si può fare, fallo. La via d’uscita è lì da qualche parte, a volte in bella vista e a volte meno, divertiti a trovarla.
Pur pervaso da sano e sincero entusiasmo come non non mi capitava da tempo, non capisco però perché i giorni successivi all’uscita di The Last Guardian siano stati accompagnati da un coro abbastanza unanime di “chi non apprezza TLG non ama i videogochi”. Mi pare un’affermazione con pochissimo fondamento, e per più ragioni. La prima, diretta conseguenza di quanto scritto poche righe più su, è strettamente collegata al fatto che The Last Guardian è quanto ci sia di più lontano dai videogiochi, almeno nell’accezione rappresentata dalle produzioni mainstream odierne.
Non ci si può nemmeno appellare a un gusto più elitario di chi giocava i videogiochi di una volta, perché anche in questo senso i giochi di Ueda sono distanti anni luce dalle meccaniche ferree che pretendevano una coordinazione occhio/mano oltre l’umano per essere padroneggiate – di cui oggi probabilmente solo una certa produzione Nintendo offre una versa interpretazione moderna.
La telecamera spesso ingestibile, la legnosità diffusa e la necessità di ripetere intere sezioni perché a prescindere dall’angolo di visuale non c’è modo di far capire al gioco quale comando si voglia impartire sono solo alcuni esempi di ciò che intendo. E non credo nemmeno si tratti di incapacità. Per quanto il team probabilmente non non brilli da questo punto di vista, l’animazione di un essere che può ricevere comandi dal giocatore, ma decide di fregarsene o di eseguirli come e quando gli aggrada è indice di una discreta padronanza.
È questione di priorità, dunque.
Ueda ha deciso di spendere i dieci anni abbondanti di gestazione accudendo ed educando il suo Trico, sacrificando la pulizia delle meccaniche di gioco sull’altare del suo discorso autoriale. Col beneplacito di Sony, ovviamente, nello strano ruolo di finanziatore filantropo, più interessata al ritorno d’immagine che di quello economico. In risposta, la critica ha deciso di abbandonare almeno per una volta un metro di giudizio technology-driven e mettere sotto i riflettori altri aspetti del prodotto videogioco.
Una convergenza astrale di priorità la cui rarità, o forse sarebbe meglio dire unicità, racconta tutto quello che c’è da dire sull’industria del videogioco moderna.
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