Ho abbandonato Dylan Dog molto prima – questo deve essere chiaro da subito – del suo creatore Tiziano Sclavi.
Erano passati quasi sette anni dall’uscita di quel famoso numero uno in cui mi imbattei abbastanza casualmente nell’ottobre del 1986. E altrettanto casualmente – dopo aver letto il numero, l’82, uscito a luglio 1993 – avevo deciso di non continuare a seguire la serie.
Non che ci fosse qualcosa che non andasse, in quel numero 82. Si intitolava Lontano dalla luce, lo aveva sceneggiato Claudio Chiaverotti e disegnato Pietro Dall’Agnol (la copertina di Stano credo sia stata anche di ispirazione per i creatori di Temple Run), e rileggendolo oggi e raffrontandolo con i vaghi ricordi di allora, credo fosse ben al di sopra della media del periodo. Semplicemente era arrivata alla fine la spinta propulsiva.
Può succedere con i prodotti seriali.
Non ero più la stessa persona.
Lo studente appena iscritto all’università che aveva comprato L’alba dei morti viventi in quel lontanissimo 1986 nel frattempo si era laureato, aveva servito la patria con più di un anno di servizio civile, e iniziava a muovere qualche passo nel mondo del lavoro.
Ero cambiato io, quindi.
Ma in quell’intervallo di tempo era cambiato anche Dylan Dog. O meglio: la mia percezione, all’epoca, era che non fosse cambiato affatto.
Per quanto potessero essere buone le singole storie, mancava l’ingrediente fondamentale che mi aveva attanagliato all’inizio: la meraviglia, la sensazione di essere davanti a qualcosa di sorprendentemente nuovo.
Perché per quelli della mia generazione Dylan Dog è stato – lo hanno sottolineato ormai migliaia di commentatori prima di me in questi trent’anni (e in questo trentennale) – il primo fumetto in serie ambientato nel mondo reale.
Un mondo in cui tutti noi lettori ci riconoscevamo nelle citazioni cinematografiche, letterarie e musicali. Perché è vero che Dylan Dog vive e si muove a Londra, ma è ancora più vero che tutte le sue storie si svolgono in quella terra di nessuno che è il nostro inconscio collettivo.
Dylan Dog, l’investigatore dell’incubo, ci accompagna – fin da quel lontano numero 1 – in un tour all’interno del nostro immaginario.
E ci ha rapito. Affascinato. Stregato.
Poi – nel mio caso dopo sette anni, ma credo che tanti altri abbiano provato la stessa sensazione – a forza di passare e ripassare sempre negli stessi posti la fascinazione si è persa.
L’immaginario era cambiato, i riferimenti anche.
Ma è pure vero che the show must go on e quindi: “Ciao Dylan, è stato bello, in bocca al lupo (mannaro), e magari ci si incontra un’altra volta”.
E via, ognuno per la sua strada.

Finché non sono arrivati internet, facebook e tutti i social network e tra un post e l’altro – alla faccia di quelli che dicono che la rete non muove le vendite – spunta la notizia che Roberto Recchioni prenderà il timone della serie e che già sulla rete circolano loschi individui armati di mazze da baseball pronti al linciaggio per lesa maestà.
Che poi, io pure John Doe – la storia si ripete sempre – lo avevo abbandonato al numero 27 più o meno per gli stessi motivi, ma con l’aggiunta di alcune perplessità di natura politico-ideologica. Però uno (anzi due, con Lorenzo Bartoli) che per il numero d’esordio sceglie il titolo La morte, l’universo e tutto quanto, omaggiando quindi spudoratamente il mai troppo rimpianto Douglas Adams, non può non lasciare il segno e meritarsi un’apertura di credito a tempo indeterminato.
Per farla breve: torno in edicola e prendo il Dylan Dog appena uscito. Delusione.
Non ho fatto i conti con la tempistica delle pubblicazioni e il numero che ho comprato non è ancora quello del nuovo corso.
Per quanto mi riguarda è la prova del nove.
Dylan è rimasto quello del ’93: alla storia in sé non si può rimproverare niente, ma è pur sempre una variazione sul tema.
Notazione a margine: stavano linciando Recchioni e ancora non aveva messo mano al personaggio. Punto a suo favore. Qualora ne avesse bisogno.
Alla fine arriva pure la famosa run made in Recchioni e le pedine si muovono. Chi doveva denigrare denigra, chi doveva incensare incensa. La serie inizia a spostare l’inerzia, lentamente, ma la sposta. La continuity, i nuovi autori, gli accenni tra le righe. E, su tutto, un albo kafkianamente disturbante (La macchina umana, Bilotta-De Tommaso, numero 356, maggio 2016) che vale da solo il prezzo e la fedeltà per almeno un altro anno.
Finché arriviamo a questo ipercelebrato e ipercommentato Mater Dolorosa in cui è pure vero che Recchioni squaderna magistralmente davanti al lettore tutti i suoi tarocchi e Cavenago accende di fuochi d’artificio ogni tavola di sceneggiatura che gli passa davanti, ma a me il groppo alla gola l’ha fatto venire la quarta di copertina.
Perché l’anteprima del numero 362 – quella copertina completamente bianca con la semplice dicitura Scritto da Tiziano Sclavi in alto a sinistra – ha scatenato un cortocircuito emozionale che non mi aspettavo.
E sarà che oggi – come in quel fatidico 1986 – mi si apre davanti un capitolo della vita ancora tutto da scrivere.
Sarà l’età che si fa sentire.
Fatto sta che sarà un piacere – il 28 ottobre prossimo – tornare in edicola, a trent’anni di distanza, ritrovare un vecchio amico e farsi raccontare una storia.
Dopo un lungo silenzio.



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Massimiliano Lanzidei

Massimiliano Lanzidei è nato a Roma nel 1967, ma vive da sempre a Latina. Dopo la laurea in Sociologia dell’Organizzazione lavora per 25 anni nel commercio e nella logistica. Nel frattempo con l’Anonima Scrittori entra a gamba tesa sulla nascente scena della webletteratura degli anni Zero. Su carta stampata ha curato le antologie Storie di (r)esistenza (L’argonauta, 2008) e Il bit dell’avvenire (Tunué, 2009). Collabora con lo scrittore Premio Strega Antonio Pennacchi (editor per Storia di Karel – Bompiani, Camerata Neandertal – Baldini & Castoldi, Canale Mussolini Parte Seconda – Mondadori). È sceneggiatore, insieme a Graziano Lanzidei, del graphic novel Canale Mussolini (Tunué, 2014, seconda edizione 2016).

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