Anche se gli elementi erano già tutti lì, davanti ai miei occhi da sempre, prima di riemergere dalla lettura di Hip Hop Family Treenon mi ero mai reso conto di come la musica hip hop e il fumetto abbiano condiviso un percorso in larga parte simile. Entrambi originano da forme d’arte universalmente apprezzate e riconosciute – la narrativa e l’illustrazione per quanto riguarda il fumetto, mentre l’hip hop affonda le radici nel blues, nel soul, nel funk e in un certo senso nella poesia – eppure nonostante queste “origini nobili” hanno goduto di scarsissima considerazione presso una larga fascia della popolazione per buona parte della loro esistenza.

Curiosamente per entrambi a questo iniziale ostracismo culturale ha fatto seguito più di recente una diffusa rivalutazione, che non escludo possa basarsi più su fattori commerciali che ideologici, favoriti sia dalla propensione al consumo delle generazioni nate tra il ’70 e gli ’80, mai completamente uscite dall’adolescenza, sia dall’elevazione a moda popolare del nerdismo. Al di là dei motivi, oggi nessuno si sorprende di trovare un disco rap o un fumetto nella selezione dei migliori 50 album/libri di sempre stilata da testate altisonanti e generalmente tradizionaliste in questo senso.

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Non si può certo dire, tuttavia, che l’Hip Hop Family Tree di Ed Piskor nasca per cavalcare quest’onda, anzi, almeno nelle intenzioni è difficile trovare un prodotto più lontano dal concetto di sfruttamento commerciale. L’idea stessa di Hip Hop Family Tree piuttosto è puro atto d’amore del suo autore verso le sue due più grandi passioni, hip hop e fumetto appunto. Serializzata originariamente online su BoingBoing, il blog/raccoglitore di figate gestito da Cory Doctorow, la storia a fumetti del hip hop dai suoi albori è diventata rapidamente un successo di pubblico tale da attirare l’attenzione di Fantagraphics che ha prima raccolto le tavole pubblicate online in volumi – editi in Italia da Panini sotto l’etichetta 9L – per poi ristamparle recentemente nel classico formato comic book a cadenza mensile, per la prima volta nella lunga e gloriosa storia della casa editrice.

Sarebbe facile pensare che il riscontro positivo da parte del pubblico sia stato stuzzicato da una formula capace di stimolare le fantasie della massa, una mitizzazione dei personaggi più iconici e venerati del rap, magari realizzata attraverso lo stile ultra-spettacolare tipico della narrazione supereroistica di Marvel e DC. Nulla di più lontano dalla realtà.

Quello svolto da Ed Piskor è un lavoro di ricostruzione enciclopedica, più vicino alla saggistica che al fumetto popolare, sia per la profondità della documentazione dei fatti storici presentati al lettore sia per lo stile narrativo scelto. Indubbiamente figlia dell’originale serializzazione online, la sequenza delle pagine tradisce una concezione più spezzettata e meno coesa rispetto a quella della raccolta in volume: a prima vista il risultato più che una storia può sembrare un’enciclopedia sul rap illustrata con il suo stile che strizza l’occhio fumetto indie statunitense, in cui le abbondanti didascalie ricche di testo a volte accompagnano e a volte integrano gli eventi che Piskor disegna.

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Non bisogna lasciarsi ingannare però perché nessuna narrazione è davvero neutrale e Piskor, pur illustrando col rigore filologico dello storico gli eventi chiave – ma anche quelli minori – che hanno portato alla nascita del hip hop così come li ha appresi dallo studio dei libri citati nella bibliografia in fondo ai volumi, riesce comunque col tempo a inserire trame e sottotrame, rimandi inizialmente comprensibili unicamente a chi conosce a menadito la materia trattata che diventeranno chiari per tutti solo col passare delle pagine. L’esempio più eclatante in questo senso è quello di Rick Rubin, produttore discografico che legherà il proprio nome all’esplosione dei Run DMC, introdotto come un ragazzino appassionato di musica punk e destinato a saltare fuori più e più volte nel corso del primo volume, ben prima della fondazione della DefJam e del suo incontro casuale coi Beasty Boys che verrà mostrato solo sul finire del secondo.

Probabilmente ce ne sono diversi altri di simili sprazzi di narrazione inseriti silenziosamente tra le pieghe della ricostruzione storica infarcita di nomi e dati, ma per coglierli tutti servirebbe una conoscenza mastodontica della materia come quella di Piskor. Rubin e le sue impreviste apparizione, indizi evidenti del meccanismo sotterraneo all’opera, svolgono però il ruolo di attivatore nel gioco che Piskor propone al lettore e che da lettori non si può fare a meno di accettare. Non si può fare a meno di cercare rimandi o anticipazioni nel tentativo di cogliere l’entrata in scena di un personaggio chiave prima che l’affermazione – e la scelta magari di un nome d’arte più facilmente riconoscibile – ne rendano evidente l’identità. Una chiave di lettura che rende accessibile anche al neofita quasi assoluto un’opera fitta e densa, che per amore di completezza cita opere e personaggi probabilmente noti soli agli addetti ai lavori.

Il successo di Hip Hop Family Tree, tra lo stile grafico vicino all’underground e le pagine dense come testi accademici, non può derivare dunque da un qualche tentativo di sfruttamento commerciale di due fenomeni di moda, quanto piuttosto dall’incredibile padronanza del linguaggio del fumetto sfoggiata da Piskor, di cui il dosaggio perfetto tra narrazione e descrizione è solo una componente – che gli è valsa per altro il premio Eisner nel 2015. Piskor è un grande amante di fumetti Marvel di lunga data e non esita ad usare qualche trucchetto appreso sui vecchi albi di Spider-man per rendere più facile il suo compito di narratore, ad esempio regalando ai suoi personaggi chiave un dettaglio estetico che li renda facilmente riconoscibili anche nel mare di comprimari e comparse che affollano il racconto. Penso alla felpa di Grandmaster Flash, ad Afrika Bambaataa disegnato sempre grande il doppio rispetto a chiunque altro nella stessa vignetta, al cappello e la zeppola di Russel “Rush” Simons o al giubbotto senza maniche del giovane Rubin col suo naso da Tin Tin.

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La confidenza di Piskor col medium però migliora di tavola in tavola e il secondo volume della raccolta mostra chiaramente una crescita nella capacità di Piskor di maneggiare il racconto a fumetti. Trova ad esempio una sua piena dimensione la scelta di invecchiare artificialmente la carta – come già avveniva con quella digitale delle tavole pubblicate online – e di ricorrere a lettering e colorazione dell’era pre-digitale, quando di colpo il racconto si sposta nel presente per una manciata di tavole che brillano nella colorazione accesa via software.

Meno evidente, ma più importante è invece la volontà di Piskor di iniziare a dare una forma più personale alla sua storia del hip hop, abbandonando lo stile sostanzialmente super partes del primo volume per trasmettere alcune sua idee sul hip hop contemporaneo – o meglio, su alcuni luoghi comuni che da sempre lo accompagnano. Come detto, nessuna narrazione è mai veramente neutra e per riuscire in questo scopo a Piskor basta dosare in maniera differente la rilevanza degli eventi che racconta.

In Hip Hop Family Tree vol. 1 , che copre ben più di un decennio dagli anni ’70 al 1981, Piskor concentra la sua attenzione su un largo spettro di eventi e personaggi, per lo più concentrati tutti nei five boroughs di New York: le rime da citare, gli angoli di strada da visitare, le bande, le sfide e le serate sono così tante da non lasciare spazio ad altro se non al loro racconto. Col vol. 2 però Piskor restringe la forbice della sua biografica di famiglia al triennio 1981-1983: tre anni rispetto a un paio di decenni e lo stesso numero di pagine. Di colpo, c’è abbastanza spazio per farci entrare un discorso.

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Al centro di HHFT vol. 2 c’è il business, l’arrivo delle etichette discografiche che come squali hanno annusato dalla distanza il profumo dei soldi dai primi bootleg rudimentali registrati durante le sfide tra gang e venduti sottobanco nei corridoi scolastici o nei parchetti. La negazione insomma della vulgata che vede il rap commerciale come una deriva moderna: la differenza tra i primi anni ’80 e oggi è solo il diverso potere contrattuale degli artisti, non certo la volontà di spremere quanti più soldi possibili da parte dei manager discografici – e perché no, anche di alcuni artisti. Sul versante opposto invece Piskor sottolinea fin da subito il contatto tra l’hip hop e il mondo dell’arte, inevitabilmente borghese e dunque bianco, a cui in un certo qual senso si affianca la storyline di Rick Rubin: senza negare l’origine street e indiscutibilmente nera del fenomeno narrata con dovizia di particolari nel primo volume, in cui le vignette con personaggi bianchi probabilmente non superano di molto la decina, Piskor vuole smentire la presunta integrità del hip hop degli albori inserendo nell’equazione anche l’elemento più discusso e contestato, ovvero quello bianco. Un’operazione simile era già presente nel primo volume, con l’ampio risalto concesso alla parentela tra hip hop e dance, accomunate dagli stessi locali e dagli stessi scopi, quando non addirittura dalle stesse tracce.

Un’interessante riflessione su questi temi si può trovare anche nell’introduzione al secondo volume della Panini firmata da Antonio Solinas, responsabile della traduzione e dell’adattamento della collana che si mantengono sempre su livelli piuttosto alti. Tradurre il rap e i discorsi che ci girano attorno non è mai semplice e Solinas decide di farlo solo quando l’occasione lo richiede davvero, nel momento in cui ad esempio una sfida a colpi di rime è funzionale allo sviluppo della storia e deve essere compresa nei dettagli per dare un senso a ciò che verrà dopo, mentre nella maggioranza delle occasioni le strofe riportate sono lasciate in originale. Solo nel secondo volume si nota qualche passaggio in cui le parole non scorrono in modo davvero naturale, soprattutto nelle pagine finali, forse per colpa dei tempi stringenti di lavorazione, ma nel complesso l’edizione italiana di Hip Hop Family Tree è decisamente apprezzabile per cura e confezione.

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A proposito, su Twitter Piskor si è lamentato della carta lucida scelta da Panini che vanifica la sua volontà di replicare la sensazione di avere tra le mani un vecchio albetto stampato su carta economica, del tipo che si sarebbe trovato in commercio negli anni in cui è ambientato il racconto. La critica è legittima, tanto più che proviene dall’autore dell’opera, ma i volumi Panini col loro formato extra-large e la carta di qualità oltre a fare una gran bella figura in libreria richiamano un certo tipo di pubblicazione artistiche o di design di alto livello tra cui Hip Hop Family Tree indubbiamente non sfigura.



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Claudio Magistrelli

Pessimista di stampo leopardiano, si fa pervadere da incauto ottimismo al momento di acquistare libri, film e videogiochi che non avrà il tempo di leggere, vedere e giocare. Quando l'ottimismo si rivela ben riposto ne scrive su Players.

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