Tutta la conversazione intorno a Stoner, classico riscoperto (più e più volte, peraltro) di John Williams, sembrava agilmente dimenticare che sì, forse l’autore non era più illustre come in passato, ma almeno aveva vinto almeno un premio importante come il National Book Award, e non era certo vissuto nell’oscurità.
Non si può dire la stessa cosa di Lucia Berlin e delle sue opere.
La vita stessa di Berlin ha sfumature quasi romanzesche: nata nel 1936 in Alaska da una famiglia borghese che si trasferisce in Cile per seguire la carriera del padre ingegnere minerario, vive poi a New York e nel Sud Ovest degli Stati Uniti (soprattutto Colorado e California), si sposa tre volte e diventa madre quattro, fa ogni genere di lavoro per mantenere sé e la prole, cade nella spirale dell’alcolismo da cui riesce a tirarsi fuori nei tardi anni Ottanta. Mentre cerca di sopravvivere a tutto questo, Lucia Berlin scrive: nel 2015 – undici anni dopo la sua morte – è finalmente arrivata una raccolta di racconti intitolata A Manual for Cleaning Women, pubblicata in Italia lo scorso febbraio da Bollati Boringhieri con il titolo di La donna che scriveva racconti e tradotta da Federica Aceto.
Le storie di Lucia Berlin attingono al suo vissuto, ma sono personali più che davvero autobiografiche. Alcuni racconti ritraggono un incontro con persone memorabili (Morsi di tigre oppure La Vie En Rose, ma anche le brevissime vignette 502 e Io e B.F); altri hanno un’impronta che sembra più vicina alla realtà dei fatti (Incontrollabile); altri ancora paiono del tutto avulsi dalla vita dell’autrice, finché non emerge qualche elemento già familiare al lettore (Fammi un sorriso, Qui è sabato). Certi dettagli e temi ritornano più volte: i quattro figli maschi, l’alcolismo, una sorella che vive in Messico e amatissima nonostante anni di lontananza fisica ed emozionale, l’uso dello spagnolo, il suicidio, i cosiddetti mestieri umili, una famiglia d’origine a dir poco disfunzionale, la varia fauna degli alcolisti, un rapporto contrastato con la sessualità, la giovinezza dorata in Cile. Nondimeno, Berlin non pretende di raccontare solo la verità e ha sempre dichiarato con tranquillità di aver inventato particolari o esagerato avvenimenti.
Questi racconti sono stati accostati spesso ad altri di autori che presentano qualche somiglianza superficiale con la vita o l’opera dell’autrice – l’alcolismo di Carver, per dire, come se fosse l’unico scrittore americano con problemi di dipendenza da alcol. I paesaggi pieni di glamour e desolazione della California degli anni Sessanta e Settanta, in realtà, ricordano più Eve’s Hollywood di Eve Babitz (un’altra autrice da poco riscoperta, la cui opera è vicina al genere dell’autofiction), oppure la prima Joan Didion, soprattutto di The White Album].
Se Babitz e Didion restano sempre osservatrici in qualche modo privilegiate – Babitz si muove in una classe sociale molto più elevata, e l’immersione di Didion negli avvenimenti che testimonia è sempre legata al suo mestiere di giornalista –, Berlin invece ha vissuto in prima persona le esperienze di cui parla. Joan Didion va a comprare un vestito per Linda Kasabian da indossare al processo per gli omicidi Tate-LaBianca; Berlin (con le dovute proporzioni) è Linda Kasabian. L’artista è presente.
«Raccontami ancora di lei. Sulla nave. Con le lacrime agli occhi».
«Ok. Butta la sigaretta in acqua. Si sente lo sfrigolio, nell’acqua calma vicino alla riva. I motori si spengono e l’imbarcazione ha un sussulto. Silenziosa, con il solo rumore delle boe e dei gabbiani, e un lungo fischio funereo, la nave scivola l’ormeggio nel porto, cozzando piano contro i copertoni lungo il molo. Mamma si sistema il colletto e i capelli. Guarda la folla sorridendo, cerca suo marito. Non aveva mai conosciuto tanta felicità».
Sally piange sommessamente. «Pobrecita. Pobrecita» dice. «Se solo fossi riuscita a parlarle. Se solo le avessi detto quanto le volevo bene».
Quanto a me… io non ho pietà.
In ogni caso, non basta solo una vita piena di contrasti – che sia affondata nel degrado o scintillante di lusso – per dare vita a narrazioni interessanti.
Il talento di Lucia Berlin si esprime in una scrittura secca, un linguaggio spietato che sono l’antitesi della compassione con cui tratta i propri soggetti; l’alienazione e il dolore caratterizzano gran parte dei racconti, ma non sono ritratti con l’autocommiserazione di chi è felice di poter mostrare di aver tanto sofferto, bensì l’arguzia di chi per fortuna è sopravvissuto.
Infine, qualche considerazione che prescinde dal testo in questione. Lucia Brandoli Bosquet, su Minima e Moralia, ha giustamente criticato il titolo scelto da Bollati Boringhieri per l’edizione italiana del testo. La Donna Che Scriveva Racconti sembra rifarsi a un certo genere di romanzi rosa il cui titolo italiano spesso ricalca la formula del La Donna che… oppure La Ragazza che…, di cui – per dare un esempio concreto – una casa editrice come Piemme è maestra (vetta incontrastata: La Ragazza che Cuciva Lettere d’Amore per il più dimesso The Forgotten Seamstress). La copertina ritrae una ragazza molto giovane, che, per quanto meno fuori posto rispetto al titolo, di certo non è neanche la scelta migliore che si potesse fare: basta contrastarlo con la grafica pulita della copertina dell’edizione americana o la comprensibile furbizia con cui le edizioni scandinave e quella in lingua portoghese sfruttano la notevole fotogenia di Lucia Berlin. Se segmentare il mercato è una strategia prediletta da parte del marketing, questo è uno di quei casi in cui sarebbe stato più sensato cercare di attrarre un pubblico più vasto e potenzialmente interessato, piuttosto che una nicchia stabile che non è scontato possa essere raggiunta da un editore raffinato come Bollati Boringhieri (non proprio un nome che si trova nel reparto libri del supermercato).
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