You know who cries the hardest in the Miss America pageant? The winner because she knows she can’t win again and winners always want to win more.” (Harvey Specter)

Il Club dei Vedovi Neri di Asimov è un circolo composto da sei amici, ognuno dei quali esperto in un qualche campo, più un formidabile maggiordomo. In occasione di ogni riunione del club viene invitato a cena un ospite a cui spetta l’onere di imprimere la direzione alla serata introducendo un argomento da dibattere o un mistero da risolvere. Prima di iniziare la serata all’ospite viene invariabilmente posta una domanda: lei come giustifica la sua esistenza? Se uno dei personaggi di Suits fosse l’ospite, la risposta senza mezzi termini sarebbe “con il mio successo”.

Suits è ambientato in uno studio legale ma non è mai stata una serie sull’ambiente legale: i corridoi della firm sono l’ideale passerella da calcare per individui carismatici e ambiziosi con il successo come forma mentis e il restare al vertice della piramide quale primo e unico punto della loro agenda. Personaggi come Jessica e Harvey sanno che nel loro mondo “secondo classificato” è solo un modo educato per dire “perdente”. Le cinque stagioni di Suits parlano di questo: all’inizio in modo accattivante, poi perdendo smalto, slancio e ispirazione ed infine, quando si ha avuto il coraggio di affrontare il proverbiale elefante nella stanza, in modo magistrale.

La scelta di contestualizzare una storia che parla dell’avere successo all’interno di uno studio legale è stata duplicemente azzeccata. Una grande firm di Manhattan è uno scenario perfetto per esibire lusso e prestigio e rendere i personaggi avvocati ha permesso agli autori di non scomodarsi nella creazione di un ambiente credibile per storie professionali verosimili: decenni di legal drama hanno già formato lo spettatore a cui è sufficiente sentire una manciata di termini legali buttati qui e là ed è come se fosse chiaro a tutti di cosa si sta discutendo quando si tirano in ballo citazioni, diffide, querele, ingiunzioni. Non a caso l’aula di tribunale compare pochissimo e solo come rafforzativo dell’immagine che il pubblico ha già impressa nella mente. Ogni singolo caso presentato nel corso delle cinque stagioni raramente è approdato davanti a un giudice per essere dibattuto, ma è sempre stato il veicolo per la mostra dei muscoli, per l’attuazione di strategie e tattiche per sbaragliare l’avversario, per riaffermare il proprio status di vincente. Sempre.

Questa struttura ha funzionato perfettamente per le prime due stagioni al termine delle quali la falcata da amazzone di Jessica, la raffica di citazioni pop tra Mike e il suo mentore, e l’alpha machismo di Harvey erano pronti per reggere un arco narrativo solido che non consistesse nel vincere il caso della settimana perché Harvey è Harvey (e tutti gli altri no), o perché in extremis la memoria eidetica di Mike tirava fuori un’informazione risolutiva.

Nel parco di individui affascinanti e magnetici Louis è l’unico personaggio della serie sgraziato e unfashionable, ma è anche la cartina tornasole per testare la salute della serie. Da panterone sovrappeso, terrore dei nuovi junior associates, avvocato scaltro ma aggressivamente succube del fascino di Harvey, Louis è stato spesso sul punto di diventare un grande personaggio, ma altrettanto spesso è stato invece ridimensionato a triste macchietta. Ogni volta in cui si è concretizzata la seconda eventualità è stato in concomitanza dell’involuzione della serie che, pur di non affrontare il segreto di Mike Ross, temporeggiava fastidiosamente su altri fronti o peggio sembrava uno show commissionato da quelli di Worn on TV.

[Spoiler Warning: da qui in poi l’articolo contiene spoiler sulla serie e sull’appena concluso finale di stagione].

La miniera narrativa di Suits è la condizione di abominio etico, morale e deontologico che rappresenta Mike, la frode ambulante che è stata resa possibile in primis da Harvey con cognizione di causa, successivamente da Jessica per necessità e infine da Louis per rancorosa ambizione. Mike non si è mai diplomato, non ha mai messo piede ad Harvard, conseguentemente non ha mai superato l’esame di abilitazione, ma nonostante il (non) curriculum esercita la professione in una top firm di Manhattan: il suo nome è su centinaia di casi, tutti potenzialmente soggetti a cause legali, tutti quelli a conoscenza della sua condizione sono a rischio di ricatto, galera, radiazione dall’albo, collasso economico e infine Rachel, la fidanzata, potrebbe essere messa nella condizione di non esercitare mai, neanche se dovesse conseguire l’abilitazione.

Con la possibilità di esplorare le implicazioni legali e morali offerte da uno scenario del genere, e una volta introdotti a dovere personaggi e ambiente, èstato davvero un peccato capitale continuare a temporeggiare con archi narrativi poco memorabili. Nella seconda metà della quinta stagione appena conclusa, finalmente, il passato di Mike diventa centrale per la storia e nel processo per stabilire se Mike Ross è un avvocato oppure una frode ogni personaggio è stato messo nella condizione di affrontare un personale giudizio universale di fronte alla propria coscienza, l’uno di fronte all’altro, tutti di fronte a giudice e giuria. Harvey, per la prima volta, ha accusato e riconosciuto senza attenuanti tutto il peso della sua responsabilità diretta e non condonabile; Louis, che ha strappato obtorto collo il titolo di name partner a Jessica servendosi del segreto di Mike, ha perso definitivamente la stima e il rispetto delle uniche due donne che lo hanno apprezzato e accettato incondizionatamente. Jessica, dopo una vita interamente dedicata a sfondare quel tetto di cristallo precluso alle donne, tanto più se di colore, e dopo aver respinto ogni tentativo mirato a detronizzarla, si ritrova in una firm rasa al suolo a causa non di un nemico giurato, di un complotto diabolico, di uno studio rivale, ma solo a causa del suo migliore avvocato (dopo Harvey) che avvocato non è mai stato. Infine Mike. In extremis, dopo essersi dibatutto con tutte le sue forze nella rete che si stringeva, e dopo aver scelto di ignorare il consiglio di Rachel insospettabilmente e per la prima volta di una qualche utilità, eccolo pronto a quello che viene presentato come un sacrificio ma che rappresenta più propriamente un atto di decenza verso tutti quelli che altrimenti pagherebbero il suo errore e quello di Harvey.

Sarebbe quasi potuto essere un perfetto finale di serie ma a questo livello è difficile non desiderare avere altre stagioni avanti. Il materiale di certo non manca.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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