Cosa fare dopo aver realizzato praticamente dal nulla un gioco che molti non hanno esitato a definire un capolavoro, nonché uno dei principali artefici – se non il principale – della rivoluzione indie che ha cambiato il volto del panorama videoludico dagli anni 2000 in poi?
Sono passati ormai più di 7 anni da quando Jonathan Blow ha portato Braid su XBLA, la piattaforma di pubblicazione per piccoli giochi indipendente allestita da Microsoft su Xbox 360, la piazza Tahrir della primavera indie che ha investito il mondo delle console. Secondo lo scorrere del tempo tecnologico, grosso modo un paio di ere geologiche. Anche solo rimanendo nel circoscritto giardino delle home console, il mondo da allora ha praticamente cambiato il suo asse. Oggi è Sony il Mecenate dello sviluppo indipendente e gli indie sono usciti dalla nicchia in cui erano confinati per diventare killer app, la cui esclusività sposta un numero considerevole di unità in chiave console war.
Mentre la rivoluzione faceva il suo corso, altri si sono alternati sul palco ad arringare la folla. Jonathan Blow invece è rimasto dietro le quinte impegnato a lavorare la suo prossimo gioco, lontanissimo da Braid sotto quasi ogni punti di vista. Anzi, definirlo il “suo” videogioco sarebbe ingeneroso. The Witness nasce come un investimento, un progetto in cui far confluire tutto quello che Blow guadagnato con Braid e comprarsi la libertà di alzare ancora un po’ l’asticella – per questo non bisogna commettere l’errore di guardare con antipatia alle sue dichiarazioni sugli incassi della prima settimana su Twitter, anzi, meglio leggere direttamente la versione lunga.
The Witness è un lavoro di squadra, di un team di 8 persone che Blow ha selezionato valutando l’apporto che ciascun elemento avrebbe potuto dare alla sua idea, basandosi su criteri lontani da quelli normalmente adottati dall’industria: Orsolya Spanyol, la principale responsabile del balzo artistico compiuto dal gioco negli ultimi anni di sviluppo, è entrata nel team quattro anni fa, subito dopo aver terminato gli studio senza alcun tipo di esperienza pregressa nel settore. Si tratta di quel tipo di libertà che può concedersi solo chi sta investendo soldi suoi e non di un publisher, che poi è l’unico modo per potersi prendere tutto il tempo necessario per pubblicare il gioco solo quando il suo aspetto finale combacia al 100% con l’intenzione di chi l’ha ideato, anche se nel frattempo gli anni passano. Soprattutto se il gioco in questione è un puzzle-game nato come atto d’amore verso Myst, con centinaia e centinaia di enigmi da risolvere.
Se il richiamo più esplicito nell’ispirazione di The Witness è quello verso la suggestiva avventura grafica pubblicata dai fratelli Miller nel 1994, implicitamente è dura non cogliere suggestioni che riportano direttamente alle atmosfere e alle ambizioni di Lost, fin dal’incipit che ci porta all’esterno attraverso uno stretto cunicolo sotterraneo. C’è un’isola che non ha un dove, sospesa in una bolla temporale al cui interno tutto pare essersi cristallizzato. Intorno a noi solo frammenti di un passato indecifrabile, edifici tra le macerie, statue enigmatiche e ancor più oscuri meccanismi, unici segni umani tra una natura dominante e mozzafiato. E poi il mistero, ovunque e in ogni sua forma.
Enigmi o meglio labirinti, come li ha definiti lo stesso Blow. Schemi al cui interno bisogna semplicemente muovere una linea da un punto iniziale fino all’uscita seguendo un set di regole. Semplicemente, ovvio, è un eufemismo, perché quel set di regole via via più complesso deve essere appreso in via del tutto autonoma, per intuizione o imitazione. Non c’è nessun tutorial ad accogliere il giocatore, solo una serie di puzzle iniziali più lineari, utili a capire le meccaniche più basse della scala di conoscenza che nei panni di giocatore ci viene richiesto di scalare. Oltre questo primo gradino si staglia l’intera isola divisa in zone liberamente accessibili da subito con la sua vastità di enigmi da affrontare, a patto di conoscere la chiave, ovvero la conoscenza di tutti i set di regole aggiuntivi richiesti fino a quel punto. Questi si apprendono unicamente esplorando, tenendo alta l’attenzione e sommando per cumulo tutte le nozioni apprese lungo il processo di scoperta in un processo di auto-didattica che può arrivare a permettere, se non a richiedere, il ricorso a elementi esterni al gioco come la fotocamera di uno smartphone.
Presto tuttavia emerge la sensazione che il gioco stesso sia esso stesso un mistero. Che la sua esistenza sia legata alla rivelazione di significati che vanno oltre quelli più superficiali strettamente legati ai puzzle. Il fatto stesso che la risoluzione di un enigma conduca sempre e inesorabilmente all’attivazione di un altro pannello-enigma, senza celebrazioni, plot-twist o improvvisi cambi nella struttura del gioco trasmette a tratti angoscia, l’assenza di una risposta incastonata nei puzzle costringere a credere che le risposte siano altrove, là fuori. Di colpo l’isola se osservata dal punto giusto inizia a trasmettere messaggi. Letteralmente. Riflessi, giochi d’ombra, simmetrie e prospettive rivelano allo sguardo attento molto più di quello che l’occhio potrebbe cogliere al semplice passaggio.
Intorno alla miriade di piccoli labirinti che costellano ogni anfratto dell’isola, le mura di un labirinto mentale ben più imponente si stagliano imprigionando il giocatore al suo interno. Mentre set di regole sempre più elaborate si accatastano gli uni sugli altri, si passa dalla frenesia di capire i meccanismi di gioco alla curiosità di decifrare il messaggio di The Witness. Perché a differenza di Myst, l’isola di Blow non è solo un covo di enigmi rivolti a tutte quelle menti abbastanza brillanti da scoprirne la soluzione, ma anche un racconto che parla di fede, scienza e spiritualità, una narrazione filosofica, metafisica o forse addirittura esoterica che si interroga sul rapporto tra le idee e i simulacri, sul ruolo della percezione nel nostro rapporto col reale e con l’astratto – leggete a quali riflessioni può condurre anche uno solo di questi giochi prospettici.
Ancora una volta è Lost il riferimento principale, ma non dovendosi confrontare con un audience ottusa che pretende risposte preconfezionate da ingurgitare, The Witness fornisce semplicemente al giocatore tutti gli elementi per giungere da solo a una risposta giusta o sbagliata che sia, lusso che Lost si è potuto concedere solo per metà del suo percorso. Al massimo potete raggiungere Blow su Twitter e chiedere direttamente a lui conferma delle vostre ipotesi interpretative: finora il dibattito su è rivelato qualitativamente superiore alle incessanti domande sul purgatorio a cui hanno dovuto rispondere Carlton e Cuse. (Non è una battuta, Blow risponde davvero).
Nonostante l’umiltà di Blow – lui stesso è il primo a sottolineare ogni volta che può il contributo indispensabile degli altri membri del team alla buona riuscita del gioco – The Witness è figlio e diretta espressione della visione del mondo di Blow, come e ancor di più rispetto a Braid, sul cui significato intrinseco si riflette e si scrive ancora oggi. Con questa accoppiata di giochi Blow balza a pieno titolo nel ristretto novero delle figure autoriali prodotte dall’industria del videogioco. Rispetto ad altri suoi colleghi illustri, Kojima su tutti, Blow mostra persino un maggiore raffinatezza e un livello di confidenza con le potenzialità del medium ancora più raffinato, distiguendo tra contenuto e contenitore, mezzo e messaggio. Come detto The Witness parla di arte, filosofia e religione, ma non lo fa mai sul piano esplicito, ovvero senza mai parlare direttamente al giocatore di arte, filosofia o religione: il lato visibile di The Witness trasmette sempre l’immagine di un puzzle game impegnativo, stimolante e visivamente appagante. Eppure che il gioco parli di altro rispetto agli enigmi lineari che propone è evidente, senza necessità di citare apertamente quel “altro” come di solito il videogioco – anche nel caso di titoli più profondi della media – si ritrova a dover fare. La consapevolezza più piacevole che The Witness lascia in eredità è la convinzione che Braid non sia stato un caso, ma un primo tassello di un discorso più ampio in cui The Witness va ora a incastrarsi, quella visione del mondo che Blow sta affidando ad un corpus di opere di cui in futuro si potranno studiare tematiche e influenze. La rivoluzione non sarà trasmessa in tele, ma videogiocata.
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