Pensano di poter filmare qualsiasi cosa, l’adolescente Becca e il fratellino Tyler. Lo pensano perché in effetti possono: sono loro a immaginare e settare il film (The Visit è girato interamente in found footage); ne hanno i mezzi, l’opportunità, la vorace e insolente consapevolezza.
Così intervistano la loro mamma sulla sua vita, la riprendono mentre si commuove salutandoli dalla banchina, parlano in macchina commentando le proprie fragilità come psicologi nati, sono a proprio agio in qualunque contesto, sono subito adorabili ed entusiasti di conoscere per la prima volta i nonni materni. Poi, durante i sette giorni che passano con loro, in una casetta di campagna innevata, ecco che si scontrano con il disturbante, lo sconosciuto, lo strano.
E vengono a galla le falle, l’inesperienza esistenziale, l’incapacità di fare i conti con l’orrore imprevisto, con l’abisso oscuro della malattia e dei rivoli respingenti della vecchiaia, con la depressione, la solitudine e la folia che, nel genere che M. Night Shyamalan gestisce con un’abilità e una fluidità da manuale (non avevamo dubbi), si incarnano nel delirio corporeo, nella carne e nella mente che perdono le coordinate e generano terrore, sguinzagliando l’inatteso, innestando in una realtà che non ha più segreti-aspettative-fascino-sense of wonder l’inquietante e l’archetipico, la favola del macabro, la strega di Hansel e Gretel, l’orco di Pollicino.
The Visit riporta i giovani tecnologici e già piccoli adulti di oggi nell’incubo atavico e fiabesco delle sensazioni incontrollabili, che trascendono il visibile e controllabile. E Shyamalan firma il suo film più riuscito da E Venne Il Giorno, confermando una visione estrema quanto personale, sfrontata quanto giocosa, del genere.
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