Gli esordi fantasy paragonati al Trono di Spade di George R.R. Martin non si contano, ma è quando entra nel confronto un titolo come Armi, acciaio e malattie che si capisce che la musica è finalmente diversa. Dopo una manciata di racconti brevi Seth Dickinson è stato messo sotto contratto da un editore importante come Tor, perciò la materia prima non manca di certo, però l’enorme buzz scatenato dal suo romanzo d’esordio (da poco uscito negli Stati Uniti e nel Regno Unito) non è di per sé garanzia di avere davanti un tomo capace di differenziarsi dall’ondata compatta e indistinguibile di high fantasy che predomina il mercato statunitense, nemmeno se, come nel caso in questione, a poche settimane dall’uscita sembra uno dei front runner per la prossima stagione di riconoscimenti letterari di genere.
Leggendo le critiche tra il positivo e il tremendamente entusiasta le prove circostanziali diventano più concrete, dato che la maggioranza delle recensioni si aprono con la vivida descrizione della sorpresa, dello sgomento, dell’assoluto rapimento che questa lettura ha generato nei lettori. Sentimenti con cui avrei potuto iniziare questa testimonianza, perché anche io ho amato appassionatamente The Traitor Baru Cormorant, il miglior esordio (se non il miglior libro) su cui mi sia capitato di mettere le mani quest’anno.
“I have committed a terrible sin. So terrible that I feel I can do anything, commit any sin, betray any trust, because no matter what ruin I make of myself, it cannot be worse than what I have already done.”
The Traitor Baru Cormorant (o, come recita la tremenda copertina dell’edizione inglese, The Traitor) è innanzitutto una faccenda dannatamente personale. Per Baru Cormorant, giovane figlia di una famiglia di commercianti e guerrieri del piccolo insediamento marittimo di Taranoke all’alba di una silenziosa conquista da parte di Falcrest, l’impero che in pochi anni piegherà pacificamente le resistenze autoctone, dissanguando con la sua valuta l’economia locale, introducendo dapprima innovazioni scientifiche e culturali, poi un sistema economico e commerciale, una lingua universale e infine una censura della tradizione locale considerata dall’impero tribadista e non igenica. Ma anche per il lettore, stretto a doppio filo a questo personaggio descritto come “egoista, calcolatore, lungimirante” nel suo desiderio di vendicarsi.
Baru Cormorant si apre con il più classico degli stilemi high fantasy (e young adult): la giovane oppressa che giura vendetta contro il sistema che ne ha distrutto famiglia e felicità, decisa a diventare un ingranaggio della macchina imperiale per poterla fermare dall’interno. Il rigore logico e scientifico con cui Baru e Dickinson perseguono questo obiettivo rendono il romanzo uno degli esempi più riusciti di grimdark inteso come critica agli stilemi del fantasy classico. Dickinson non ha bisogno di ricorrere alla violenza fine a se stessa per denunciare la vacuità di tanti autori statunitensi del caso: gli basta partire dai presupposti più classici e seguirne gli sviluppi in maniera tanto rigorosa e realistica da far scomparire, per contrasto, la ripezione vacua, infinita e incongruente delle saghe di maggiore successo commerciale degli ultimi anni.
Per fare questo non si serve di un baldo principe, di un valoroso guerriero o di un bandito gentiluomo, bensì di una giovane contabile, spedita nella provincia dell’impero a rischio continuo di ribellione. Una ragioniera poco più che maggiorenne non è il prototipo del protagonista fantasy, ma d’altronde anche l’etichetta fantastica finisce per andare stretta a The Traitor Baru Cormorant, che si apre sì con la sua brava mappa del regno (come ogni libro fantasy che si rispetti) e con un’avvertenza: “This is the truth. You will know because it hurts”. L’equilibrio perfetto con cui Seth Dickinson ritrae il mondo attorno a Baru lo fa ricadere più nella storiografia alternativa che nel fantastico. Non c’è nulla di immaginifico in questo romanzo colonialista, tanto che sembra di leggere una cronaca dimenticata di piccoli ducati rinascimentali italiani perennemente in competizione tra loro. The Traitor Baru Cormorant è una lenta, implacabile analisi del potere pervasivo e sottile del denaro in chiave imperialista e capitalista, anche negli ambiti più sottovalutati, un lungo registro contabile che spiega con dura precisione l’economia della carta moneta, delle colonie, dell’impero, ma anche della guerra e della ribellione. Anche l’atto più coraggioso e cavalleresco appare inutile se non dannoso sotto lo sguardo vigile di Baru, capace non solo di prevedere ma anche di manipolare il presente e il futuro attraverso i freddi numeri.
The Masquerade had taught her all the names of sin. But her parents taught her first. And she knew in her heart, in the habits of her eyes and thoughts, what she was.
A fronte di un versante economico tanto freddo il romanzo si incendia a livello emotivo, alimentato dal desiderio di vendetta di Baru, che con rara ferocia calcola il prezzo crescente che le costa un tradimento il cui senso più profondo è perennemente in bilico: per tradire l’impero delle maschere a Baru viene innanzitutto richiesto di tradire se stessa, rimanendo un apolide culturale, sospesa a metà tra una tradizione che sente fiorire il lei naturalmente, ma a cui Falcrest ha dato i nomi dei peccati che teme terribilmente, perché potrebbero costarle la vita, o peggio, gli sforzi compiuti verso un obiettivo che sembra ora impossibile, ora suicida, mai chiaro se non nel prezzo disumano che le richiede.
Non solo in quanto traditrice, ma anche in quanto donna -in un impero che si proclama repubblicano ed egualitario nascondendo i tratti caratterizzanti dietro delle maschere per esaltare solo il valore dei suoi emissari, salvo poi cacciarla nelle province dalle tradizioni più nobili e sessiste- e in quanto eterna straniera: nella capitale sempre temuta, desiderata e irraggiungibile, nel territorio ostile da amministrare e nella patria tradita per entrare nel sistema imperiale.
They would forgive a man who struggled to string. But never you. Your errors will be written on your blood and sex. You must be flawness.
Nonostante qualche replica stizzita dai social justice warrior, The Traitor Baru Cormorant è ineccepibile anche sotto questo aspetto. Non teme Bechdel Test di sorta (anzi, forse non ne pascerebbe la versione contraria), ha una protagonista con una mescolanza di etnie affascinante e meravigliosamente detestabile e anaffettiva, che si scontra e lotta con una manciata di altre rivali che per forza e sfaccettature di carattere e intenti potrebbero essere agevolmente protagoniste di un romanzo parallelo che narri la loro versione della storia. Come tutte le vendette, i piani finiscono sempre per sfuggire di mano e anche a Seth Dickinson sfuggono un paio di passaggi che rivelano la sua natura di debuttante, ma per le restanti quattrocento pagine è assolutamente implacabile, con Baru e con il lettore.
Ed ecco tesa anche per voi la trappola: da questa scarna sinossi penserete di aver capito, di poter prevedere, di conoscere già i segreti che regnano nel cuore di pura dedizione, paranoia e repressa passione di Baru. Aprirete il libro con quello sguardo di sufficienza di chi crede di sapere, e non verrete traditi, almeno non fino a quanto la stretta della logica ineccepibile del romanzo si stringerà attorno al vostro cuore. E allora saprete che Dickinson vi ha raccontato solo la verità, e lo saprete perché quel finale andrà esattamente dove avevate supposto, ma senza immaginare quanto avrebbe potuto ferirvi.
The Traitor Baru Cormorant è al momento disponibile solo in lingua inglese, ma la lettura in lingua, seppur con uno stile che non lesina raffinatezza, è tutto sommato più che abbordabile anche per chi non ha grande malizia nella lettura in lingua originale. Fatevi un favore: recuperatelo il prima possibile, così anche voi potrete unirvi al coro di chi “ve lo aveva detto” nella prossima tornata di premi letterari SFF.
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