Capita a tutti i cinefili, presto o tardi, di incappare nella visione di un biopic, un film biografico dedicato a uno o più personaggi noti al grande pubblico. Non di rado, in tale circostanza, succede di rimanere delusi perché lo spettacolo non si è configurato precisamente come uno Spettacolo…
Se le biografie su schermo non godono di particolare prestigio è perché, il più delle volte, la loro funzione si esprime tra la semplice utilità informativa e un’esposizione cinematografica poco impegnativa, demandando alla sola trama il compito di appassionare il fruitore. Che si tratti di un grande atleta sportivo, del frontman di una band musicale di successo o un individuo che è stato capace di cambiare il corso della storia, il biopic dovrebbe condensare, evidenziare e raccontare una vita, o una serie di eventi, stimolando un interesse capace di suggellare empatia e affezione con lo spettatore.
Di fatto il biopic, (re)inserendo nell’immaginario collettivo una figura e le vicende che la interessano, plasma un ricordo che, se ben circostanziato, credibile – anche se non per forza preciso e realistico – ed emotivamente trainante, può incidere sensibilmente sulla ricezione presente e futura di un personaggio. Per tale ragione il biopic, nonostante la ricorrente leggerezza con la quale è approcciato, può esercitare un eccezionale potere, ma a patto di assolvere, prima di tutto, la sua missione principale: intrattenere. Purtroppo la difficoltà sta proprio qui.
Nel delicato momento in cui il dato reale converge con il trattamento cinematografico la storia può assumere sembianze ingannevoli. La questione della fedeltà cinematografica – soprattutto quando si parla di biopic – è qualcosa che si spinge ben oltre l’autenticità delle informazioni storiche, etiche ed estetiche e, anzi, non di rado è proprio nel tradimento a risiedere l’originalità e il rispetto di una verità. Sicuramente questo tradimento è più facile da accettare quando la rappresentazione appare più astratta o poetica, quando cioè tende a far eclissare la storia dietro al discorso operato sulla storia. In questo caso a contare non è tanto la vita raccontata, quanto la lettura di un personaggio, situazione in cui il fruitore, trovandosi a subire una o più licenze narrative adottate dal regista e/o dallo sceneggiatore, sembra più incline ad afferrare il metatesto che si cela aldilà del testo e ad accogliere positivamente tutte le deformazioni del caso.
A esempio può essere citato Ed Wood (Tim Burton, 1994), film in cui si opta per particolari scelte fotografiche, scenografiche e di messa in scena per allestire la versione iperbolica e sdrammatizzata di una vicenda di emarginazione – sia artistica sia umana – che oggi appare più ridicola delle produzioni realizzate dallo stesso Ed Wood, attualmente rivalutate e omaggiate. Ma è anche il caso di esperimenti più arditi quali Io non sono qui (Todd Haynes, 2007) nel quale la stessa costruzione narrativa finisce per subire – anche a discapito della fluidità storico-cronologica – un processo di sofisticazione concettuale, introdotto dalla frammentazione del film in tanti segmenti diversi recitati da altrettanti variopinti interpreti. Il biopic di Haynes, in controtendenza rispetto al classico trattamento adottato per il racconto biografico, ripercorre le fasi esistenziali e artistiche vissute da Bob Dylan, tratteggiando in maniera originale la vita del musicista e restituendone una descrizione a 360 gradi. Ancora più rari, poi, sono i casi in cui l’affabulazione viene deliberatamente scansata a favore dell’antinarrazione e dello sperimentalismo estremo. Anomale quanto interessanti sono le suggestive focalizzazioni di Lisztomania (Ken Russell, 1975), Cronaca di Anna Magdalena Bach (Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, 1988) o Wittgenstein (Derek Jarman, 1993), solo per citare alcuni apprezzabili esempi.
Quale che sia la soluzione adottata per tentare di sviscerare la vita di uno o più personaggi, è possibile sostenere che le deformazioni possono servire a liberare i significati intrappolati nelle fitte trame della storia.
E i film biografici in cui non si adottano strategie di questo tipo? Esistono casi – ed è necessario sottolinearlo – in cui le deformazioni e i tradimenti appaiono così microscopici e apparentemente insignificanti da rendere difficoltosa l’individuazione dei motivi che rendono appassionante e funzionale un biopic. I film in questione, pur rispettando fedelmente il canovaccio tradizionale del racconto biografico, vantano una mirabile ricostruzione dei fatti che, contrariamente alla ruffiana selezione agiografica operata dai più (si pensi agli atroci YSL o Grace) , tende a prediligere frammenti evocativi di natura intima e latente. Una selezione tanto accurata è spesso appannaggio dei mestieranti più esperti e sensibili, ma numerosi film dimostrano che, da sola, può segnare la distanza tra una composizione incisiva e una del tutto scadente. Se nella loro chiarezza espressiva e narrativa film tanto diversi come Walk the Line (James Mangold, 2005), Bright Star (Jane Campion, 2009), The Social Network (David Fincher, 2010), The Aviator (Martin Scorsese, 2010) e Lincoln (Steven Spielberg, 2012) – per pescare nell’ultimo decennio di cinema – hanno rappresentato in maniera tanto onesta e persuasiva la vita di personaggi che abbiamo imparato a conoscere ma non ad amare finché non li abbiamo ritrovati sullo schermo, è perché chi se n’è occupato ha saputo tirar fuori da essi un mondo, per poi ricostruirglielo intorno affinché potessero diventarne i soli abitanti autorizzati, e quindi gli unici veri protagonisti.
Purtroppo i risultati non sempre sono ammirevoli e, il più delle volte, i biopic tradiscono le aspettative di chi, tra una biografia scritta e un film biografico, ha riposto fiducia nel potere delle immagini in movimento. Il problema è che spesso il biopic rappresenta, soprattutto per i registi in erba, gli sceneggiatori emergenti e i produttori pavidi, un genere apparentemente accessibile in cui non sia necessario “mettere le mani in pasta”, quando è evidente che il segreto di un buon biopic sta tutto nel rimpasto della Storia, delle storie, ma soprattutto delle anime.
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