Inizia mantenendo tutte le peggiori promesse Noah, ambiziosissima eco-epica avventura biblica sul costruttore dell’Arca, alle redini un regista vibrante ed elettrico, di resa variabile ma sempre tempestosa e radioattiva. Dallo psichedelico Requiem for a dream al melò new age strabordante di passione e sprezzo del ridicolo/pericolo The Fountain, dal carnalissimo e disperato The Wrestler a Il cigno nero, ritratto squarciato sul lato oscuro e doppio dell’adolescenza, coming of age macchiato di sangue, su Aronosfky abbiamo sempre saputo di avere una certezza: che sarà capace di sorprenderci ogni volta, nel bene o nel male.
Solo che stavolta, come detto, pare ingranare più verso la seconda direzione: con come traino la ritrovata (e a volte donatrice di istanti commoventi) coppia Crowe/Connelly, il film in principio annaspa tra una computer grafica grezza ed elementare, un eccesso tronfio di aulicità cristologica che appesantisce una narrazione inquadrata in un’ambientazione giocoforza rada e scarna, e inserti fantasy opinabili come i Vigilanti, mix stonato tra i Transformers e i titani cattivoni dell’Hercules disneyano.
Così la prima parte, relativa al viaggio della famiglia e alla costruzione dell’Arca, ai messaggi onirici del divino e alle sortite dall’eremita Matusalemme (Anthony Hopkins nei panni che ormai indossa da oltre dieci anni, quelli dell’anziano saggio incanutito e magari un po’ magico: da Alexander a Thor), pare scontare la proporzione del suo potenziale e delle sue ambizioni. Poi, però, c’è quel passaggio di tempo schizofrenico e visionario in cui vengono frullati insieme nientepopodimeno che evoluzionismo e creazionismo (!); c’è la rabbia crescente di una famiglia che inizia a non comprendere più l’etica delle ragioni paterne, e dunque di quelle divine; c’è soprattutto il connubio quasi stralunato tra il pathos spiritual-posticcio della rappresentazione e, nel suo substrato, un cuore di tenebra che si allontana sempre più proprio dalla luce.
È infatti il secondo tempo, più fortemente ed emotivamente aronofskiano, ad accendere un palpito nella visione. La miccia, l’idea più interessante del film, è per l’appunto la graduale caduta virata al nero di Noè: il suo compito gravoso, l’onere di essere il prescelto divino, si tramuta in una sorta di discesa agli inferi antieroica, un crollo tragico nella misantropia e nell’ossessione; ciò ne fa infine una figura che a un certo punto richiama persino quella di Erode. Un’impennata di clima(x) che raggiunge un’efficace tensione drammatica, quasi horror.
Noè, ambasciatore terreno di un Dio vendicatore, diventa ordunque messia solitario, giustiziere allucinato dalla sua investitura a salvatore della purezza della terra, un eletto dalle mani macchiate di sangue. Un protagonista in cui s’intravede il riflesso di Randy, di Tom, di Nina: vischiosamente, tragicamente imprigionato nel proprio destino di spirale ossessiva, cavaliere oscuro fino all’odio spettatoriale. Noè diviene, in sostanza, un angelo caduto alla stregua dei giganti di roccia che scontano la pena per aver provato pietà degli umani ma infine la espiano e ascendono al cielo.
Un discorso intrigante, soprattutto se trattato da un autore che contenutisticamente e stilisticamente non ha mai avuto timore di arrischiarsi a immergere gli occhi in materie ambigue, elevate, terragne, scottanti; e che qui affronta un po’ a tratti, nei confronti tra Noè e Ila, nell’osservare giudicante ma senza azione (Noè impotente, ma anche volutamente deciso a non entrarci dentro) la degenerazione dell’uomo tra sangue e fiamme.
Quello che infine brucia sotto la pelle, che ribolle lentamente, a fiotti, nei confronti di questa sorta di strano meltin’ pot (film catastrofico, tragico, religioso, orrorifico), è la percezione di una pellicola che, troppo tardi ma con un impatto comunque incisivo, diventa crudelmente affascinante.
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Grazie!
unire le due teorie delle origini dell’uomo l’ho trovato intrigante, il connubio che fa contenti tutti