Proseguiamo dunque, dopo una prima parte dedicata a Elektroplankton, Gone Home e The Stanley Parable, con l’analisi dei titoli “ambientali” più interessanti, dando particolare rilievo a quelle opere che nel tempo hanno ricevuto (spesso inspiegabilmente) poca attenzione, anche da parte della critica di settore.
Starseed Pilgrim (Droqen)
Stando agli sviluppatori stessi Starseed Pilgrim “è un gioco [incentrato] sulla coltivazione di un giardino sinfonico, sull’esplorazione dello spazio e sull’accettazione del proprio destino. Sei un giardiniere alla ricerca di rumore e spazio vuoti, da riempire entrambi di colore. Sei un esule che costruisce il proprio mondo lontano dall’oscurità che va diffondendosi”.
Gli elementi che più ci interessano in questa sede sono evidentemente l’idea del “giardinaggio” e quella dell’esplorazione dell’ambiente (di nuovo!), in cui edificare un intero mondo sospeso. Essenzialmente, nei panni di un minuscolo essere umano, che può riportare vagamente alla memoria il Commander Video dei vari Bit. Trip, si viaggia e si piantano semi nella terra, per costruire ponti verso un “altro mondo”. Al di là del fascino poetico e filosofico che questo gioco dallo stile minimale e curatissimo (meraviglioso il bianco “vuoto”, appunto, su cui si stagliano le costruzioni progressive e stratificate del giocatore) porta indubbiamente con sé, risulta interessante vedere come le meccaniche si basino proprio su un’interazione costante con l’ambiente. D’altronde il testo sopra citato lo spiega benissimo da solo. Si è immersi in un habitat di cui bisogna capire da soli le regole, perché il gioco non fornisce alcuna informazione a riguardo, e buona parte del fascino del titolo sta proprio nella scoperta e nella comprensione graduale, senza indicazioni, di questo universo. Senza poi dimenticare il piacere di vedere crescere i semi piantati e di ascoltare un accompagnamento sonoro fatto di tocchi e accenni.
L’interazione si basa “semplicemente” sulla “semina” e il viaggio, e con tale semplicità gli sviluppatori sono riusciti a creare un ambiente in cui quasi tutto è creato dal giocatore, per cui non sarà mai possibile assistere a due partite di Starseed Pilgrim uguali. E il gioco diventa ancora più interessante quando ci si rende conto di trovarsi in un platform/puzzle con un pizzico di strategia… Ma di più non posso dire, per non snaturare l’esperienza di chi volesse dargli una più che meritata possibilità.
AVGM (Edmund McMillen)
Un “piccolo” gioco che si basa su una grande idea: quella della riduzione e della reiterazione di interattività di cui parlavo in occasione di The Stanley Parable. Potete giocarlo gratuitamente su Internet, oppure dedicarvi alla versione completa contenuta come segreto “sbloccabile” in The Basement Collection (notevolmente migliorata, anche solo dal punto di vista sonoro).
AVGM è un gioco che costringe a premere un solo pulsante, atto ad accendere e spegnere la luce di una stanza che mano a mano si arricchisce di oggetti con cui arredarla più o meno a piacimento, mentre le immagini che si compongono diventano sempre più grottesche ed allucinate, come si conviene a McMillen (autore, assieme a Tommy Refenes, di Super Meat Boy). Il tutto calato in una parodia dei giochi free-to-play i quali contengono, a dispetto della denominazione, oggetti acquistabili che altrimenti richiederebbero tempo per essere ottenuti, mostrando quanto sia sprecato il tempo a loro dedicato. E quindi via a cliccare un solo bottone come neppure in Candy Box, per completare l’insolito quadretto.
Interazione con e gestione di uno spazio chiuso in cui le azioni consentite sono una, al massimo due, per schiacciare il giocatore in un’inutilità di fondo, per sminuirlo e ridicolizzarlo, con la speranza, forse, di riattivarlo.
Inside a Star-Filled Sky (Jason Rohrer)
Qui l’autore definisce il proprio gioco come “uno sparatutto tattico infinito e ricorsivo”: Jason Rohrer, conosciuto principalmente per Passage e Gravitation, torna a lavorare su uno “shooter” bidimensionale a scorrimento libero dopo il suo primo, interessantissimo titolo, Transcend. Il gioco è uno sparatutto ambientato in uno spazio inventato e stilisticamente vicino alla poetica delle sue opere precedenti, soprattutto nell’uso di una “Pixel Art” capace di renderlo immediatamente riconoscibile.
Essenzialmente, in Inside a Star-Filled Sky ci si muove liberamente all’interno di labirinti generati proceduralmente pieni di nemici da abbattere, mentre si raccolgono power-up in grado di aiutare un giocatore inzialmente quasi inerme. Sembrerebbe quindi un gioco estremamente tradizionale, ma le cose stanno diversamente: Rohrer introduce la possibilità di entrare in un qualsiasi elemento dello scenario, dentro al quale si trova un altro labirinto, con altri nemici e altri potenziamenti. Mano a mano ci si addentra sempre più in questo cielo “pieno di stelle”, e quando si muore si viene riportati indietro di una vita, all’incarnazione precedente. Proseguendo nel tragitto i nemici diventano più forti e veloci, aumentano di numero, situazione equilibrata però dal miglioramento dei power-up.
Il rapporto con l’ambiente è dunque centrale, dato che ogni elemento interattivo è esplorabile nel vero senso della parola, mentre si cambia costantemente forma e aspetto in una sorta di matriosca infinita. Se lo si valutasse come shooter tradizionale, il qui presente gioco avrebbe ben poco da dire, ma l’atmosfera molto particolare, se vogliamo lontanissima dagli “stereotipi” sci-fi/minimalisti del genere (basti pensare, su tutti, all’ottimo Geometry Wars), la meccanica dell’ “esplorazione a frattali”, l’accento posto più sull’interazione ambientale che sugli scontri e la possibilità di lasciare segni anche indelebili sul mondo di gioco, applicando la propria “bandiera musicale” negli spazi appositi o lasciando un messaggio ai posteri, offrono un’esperienza completamente nuova, filosofica in senso rohreriano – cioè completamente centrata sulle meccaniche di gioco, non come mero discorso contenutistico.
Proteus (Ed Key and David Kanaga)
Questo è forse il titolo che risponde meglio, tra tutti quelli che ho analizzato, alla definizione di partenza. Partiamo di nuovo dalle parole degli sviluppatori, che descrivono il gioco in poche righe: “Proteus è un gioco basato sull’esplorazione [notare come ritornano le parole] e sull’immersione in un mondo, un’isola da sogno, in cui la colonna sonora della partita è creata dall’ambiente stesso. Proteus si gioca in prima persona, ed il mezzo primario d’interazione è semplicemente la tua presenza nel mondo e il tuo modo di osservarlo”.
In Proteus, infatti, non si fa altro che camminare su un’isola completamente inventata e, anche qui, generata proceduralmente, per lasciarsi avvolgere dall’ambiente e dalle forme, che cambiano in continuazione. L’unica azione interattiva è lo spostamento, eppure il senso di scoperta, l’immersione, appunto, la voglia di vedere di più e di scoprire i segreti di un mondo virtuale non lasciano minimamente spazio alla definizione di “non-gioco”, ma solo a quello che è videogioco a tutti gli effetti.
Qui l’interazione è a un livello basilare ma centrale: spostandosi nello scenario si opera di volta in volta una scelta (certo, sempre entro i limiti decisi dagli sviluppatori, anche se la produzione procedurale degli scenari in questo senso aiuta), si decide cosa vedere e cosa no, in ogni singolo istante si escludono centinaia di punti di vista per sceglierne uno, e di conseguenza nulla sarà mai uguale a quanto si è visto prima. Il gioco, come abbiamo avuto modo di ricordare anche in altri casi, riportato alla dimensione originaria, come semplice “giocare con le forme e con i colori” (ricordate le parole di Toshio Iwai per Electroplankton?).
Un gioco “ambientale” nel vero senso della parola, in cui l’ambiente influenza la nostra percezione ma è anche influenzato dal nostro “banale” incedere e dalla nostra presenza come entità fisiche al suo interno. Un gioco che eleva (e non abbassa, attenzione) l’interazione alla basilare condizione dell’esistenza contingente, qui e ora.
Samorost, Osada e Windosill (Amanita Design e Vectorpark)
Ovvero: le avventure grafiche “ambientali”. Sto parlando di quelle avventure grafiche in cui la risoluzione degli “enigmi” si differenzia rispetto ai grandi classici cui siamo abituati da tempo immemore. L’attenzione non è più rivolta alla raccolta di oggetti e alle varie combinazioni, ma tutta l’interazione si sposta proprio sull’ambiente di gioco, sul quale si agisce dall’esterno, non controllando direttamente un personaggio.
Esemplare in questo caso è Amanita Design, che già in Samorost aveva dato prova di questo “nuovo” tipo di avventura “punta-e-clicca” (non, ad esempio, in Machinarium, decisamente più tradizionale, anche se qualitativamente eccelso), che raggiunge, a mio avviso, l’apice e l’estrema radicalizzazione in Osada, un “video musicale interattivo” in cui si procede tra mille scenari da delirante Far West con tanto di indiani in camicia, senza “usare” mai un singolo personaggio, ma stimolando l’ambiente di gioco, anche solo per la curiosità di vedere cosa accadrà con un clic su un cowboy che spara da una pistola di cartone.
Molto vicino a questa idea è anche un altro piccolissimo titolo, Windosill di Vectorpark, studio maestro del genere (Feed the Head, Levers e Park). In questo caso gli enigmi vengono “spostati” addirittura sullo sfondo. Si interviene da fuori, anche qui, per permettere al nostro trenino giocattolo di proseguire lungo una strada sempre dritta, alla ricerca di chissà cosa. Sono solo due esempi di come si possa rinnovare e ringiovanire un genere (spesso, e ingiustamente, dato per morto), lavorando proprio sulla condizione essenziale, necessaria e sufficiente, che rende tale un videogioco: l’interattività.
[continua…]
Se ti piace quello che facciamo, puoi supportarci (o offrirci una birra) comprando musica, giochi, libri e film tramite i link Amazon che trovi negli articoli, senza nessun costo aggiuntivo.
Grazie!