Prima scena: cinema drive-in nella selvaggia provincia americana, vecchie decappottabili, pick up e facce da cowboy. All’interno di un’auto una coppia divora hotdog, ma lui, Curtis DeGroat, è un capobranco che si imbestialisce facilmente e non perde occasione per esercitare la sua violenza di maschio alfa sulla malcapitata di turno, e non si smentisce, attirando l’attenzione degli altri spettatori. Parte una scazzottata da bar tra muscolosi tatuati che finisce con mascelle livide e cranii calpestati dai celebri “yellow boots”. Stacco. Sulle prime note di Release dei Pearl Jam il mood si fa grunge, in lontananza le ciminiere dell’acciaieria, che fumano incessantemente, sovrastano la ferrovia che si snoda attorno alle case a schiera di periferia con i portici che esibiscono un consunta bandiera a stelle e strisce.
La voce di Eddie Vedder accompagna la prima inquadratura di Christian Bale/Russel Baze: occhi stanchi, capello lungo, pizzetto, tribale sul collo, camicia di flanella e jeans consumati. Baze è uno che si spacca la schiena e non vuole guai, lavora nell’acciaieria di Braddock, Pennsylvania, come il padre, malato di cancro, che accudisce devotamente, tiene a bada il fratello incasinato Rodney (Casey Affleck) quattro volte militare in Iraq, e trova pace solo tra le braccia di un’amorevole maestra elementare (Zoe Saldana). Ma tutto precipita e il seguito è un disperato tentativo di riemergere.
Questo è Out of the Furnace di Scott Cooper, o meglio, l’antipasto che ti fa pregustare il lauto pranzo. Questa volta, però, Bale non è Bruce e scalare il pozzo di Lazzaro è più difficile perché sulle spalle ha il peso della famiglia e, ahimè, anche quello del film. Prova a rialzarsi, ce la mette tutta per riparare i cocci e ripartire, mentre il fratello cerca di espiare i crimini di guerra nel fango dei combattimenti clandestini, ma non c’è redenzione o possibilità di riscatto.
Anche al film non basta la convincente prova di Bale & Co (Woody Harrelson, Willem Dafoe, Sam Shepard) e nemmeno il coinvolgimento dei produttori Leonardo Di Caprio e Ridley Scott. Cooper si appoggia alle spalle dei giganti, come aveva fatto con quelle enormi del Drugo (Jeff Bridges) in Crazy Heart, ma gli manca una visione, che sia estetica o etica, si limita a filmare la cronaca, quella di un articolo del New York Times, che era un buon punto di partenza, purtroppo disatteso da una scrittura scarna con metafore banali, emulazioni da compitino e improbabili situazioni (una su tutte, l’operazione S.W.A.T.). Peccato, perché il fantasma dei film passati, quelli esplicitamente citati o quelli vagamente riconoscibili, avrebbe dovuto indicare la strada da percorrere.
Quella de Il Cacciatore, Non E’ Un Paese Per Vecchi, il precedente The Fighter e, facendo un azzardato paragone musicale, Collateral di Michael Mann. Lì c’era la voce di Chris Cornell, qui la colonna sonora scompare nella seconda parte. Lì c’era un coyote perché eravamo a Los Angeles, qui c’è un piccolo cerbiatto. Ma tra cerbiatto e coyote si sa già chi ha la meglio.
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