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Django Unchained: Shaft e Trinità entrano in un bar…

No, non segna la rinascita di un genere e sì, è un film fantastico.

Ecco, in estrema sintesi, quello che si può dire dell’ultima fatica di Quentin Tarantino che, dopo averci girato attorno per quasi un quarto di secolo, decide finalmente di confrontarsi con il “suo” genere di riferimento: il western. Ridurre Django Unchained a mero omaggio agli spaghetti western però, sarebbe riduttivo. E’ più corretto semmai parlare, per l’ennesima volta, di contaminazione tra tanti generi e stili diversi. C’è il western, ovviamente declinato secondo un verbo che parte da John Ford e finisce dalle parti di Sam Peckinpah, c’è un pizzico di blaxploitation, di film storico, di buddy movie e persino di commedia satirica (la sequenza che vede protagonisti i membri del Ku Klux Klan e i loro…cappucci è la più esilarante dell’anno).

Quentin Tarantino era diventato “grande” già ai tempi di Inglorious Bastards , film grazie al quale aveva dimostrato di saper cambiare registro narrativo all’interno della stessa pellicola, di essere in grado di dare vita ad un indimenticabile personaggio femminile e di saper usare quella leggerezza calviniana che sembrava essere la sua unica virtù mancante. Con Django Unchained, pur tornando a registri a lui più abituali, Tarantino conferma di essere uno dei più talentuosi storyteller di Hollywood e di aver imparato molto bene la lezione dai suoi maestri di cinema: in Django sono presenti sequenze e trovate che non sarebbero dispiaciute nè a Sergio Leone, parlando di padri nobili, ma nemmeno a fantastici “mestieranti” come Enzo Barboni, Lucio Fulci, Sergio Corbucci, Sergio Sollima, Enzo G. Castellari e tutti quei registi italiani che tra gli anni ’60 e ’70 sfornavano qualcosa come cento film all’anno creando dal nulla un genere cinematografico.

Data la sua notevole lunghezza (quasi tre ore e l’assenza, dovuta ad una morte tanto assurda quanto prematura, della sua montatrice storica Sally Menke un po’ si fa sentire), Django si permette di seguire ritmi altalenanti: la prima ora, frenetica, piena di battute, azione ed eventi, brucia in un attimo, mentre la parte centrale del film, più verbosa e riflessiva, si lascia comunque apprezzare per la tensione che minuto dopo minuto va ad accumularsi fino a sfociare nel grandguignolesco finale.

Anche stavolta il regista si dimostra abile nell’assegnare agli attori le parti giuste. Se Jamie Foxx è funzionale al ruolo di protagonista silenzioso e vendicativo e Leonardo DiCaprio conferma il suo talento nell’interpretare un carismatico villain, assolutamente fuori parametro sono le performance di Christoph Waltz, che da vità ad un ironico e forbito cacciatore di taglie e quella dell’incomprensibile (in originale) Samuel L. Jackson, un nero “omologato” e più spietato e feroce dei bianchi. La lunga sequenza della cena, che vede tutti e quattro in scena contemporaneamente, oltre che a strizzare l’occhio a quella, simile per costruzione, eleganza ed armonia di Inglorious Bastards, è da ascrivere seduta stante tra le migliori di sempre del regista (e del cinema degli ultimi anni).

Inevitabile, come sempre, quando c’è Tarantino di mezzo, spendere elogi a profusione sulla soundtrack scelta dal regista, un vero e proprio inno al cinema del Belpaese, che mixa sapientemente le partiture di Morricone, Bacalov e persino del grande Micalizzi (dico, si chiude con il tema di Trinità, cosa si può volere di più?). Anche stavolta la scommessa è vinta. Adesso veniteci pure a dire che è un regista sopravvalutato.



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