C’era una volta un videogioco che, nell’ormai preistorico 2001, tentò – riuscendoci appieno – di inventare un legame tra immagini, musica e gameplay. C’era una volta uno sviluppatore, membro di un team programmaticamente chiamato United Game Artists, che pensò come forse proprio il videogioco potesse essere il mezzo espressivo più indicato per descrivere le tensioni e gli isterismi del millennio appena cominciato. Quel videogioco era REZ, e il suo geniale ideatore era l’allora capo di Sega-UGA Tetsuya Mizuguchi.
In dieci anni moltissime cose sono cambiate per Mizuguchi, ma non la passione per il triumvirato immagini-musica-gameplay, tanto che REZ trova con Child Of Eden il suo ideale seguito. Serve a poco girarci intorno: Child Of Eden è REZ 2, punto. Immutata è infatti la struttura alla base del titolo, composta da cinque mondi/esperienze sbloccabili in sequenza, così come è sostanzialmente invariato il gameplay. Tuttavia, una serie di piccoli accorgimenti è sufficiente a cambiare il volto del gioco: il più evidente – e benvenuto – è costituito dall’introduzione di uno sparo secondario, abbinato cromaticamente ad una certa tipologia di nemici. L’aggiunta, oltre a diversificare un incedere potenzialmente monocorde, determina nell’immediato un maggiore spessore ludico e rende Child Of Eden molto più videogioco e meno esperienza rispetto al proprio precursore, con buona pace della sinestesia e dei teorici del medium.
Quasi ironicamente, questo aspetto risulta in aperta contraddizione con l’estetica del gioco: laddove con REZ Mizuguchi si autoconfinava in una serie di scenari di marcata derivazione sci-fi/digitale, con Child Of Eden ha voluto liberarsi da tali vincoli d’immaginario che, per inciso, nel 2011 risulterebbero anche piuttosto anacronistici, e ha deciso di popolare il suo pantheon lisergico non con esseri figli del bit ma con creature vive, pulsanti e organiche.
Il risultato è una meravigliosa bomba audiovisiva e, benché l’azione nel suo complesso sia infinitamente più intelleggibile di quanto non fosse in REZ, davvero non è possibile rimanere indifferenti davanti al mesmerizzante affresco creato da Q Entertainment. Inevitabilmente, la natura organica del gioco si riflette anche nella colonna sonora: abbandonate le bolgie techno di REZ, qui trovano spazio composizioni liquide e dai connotati maggiormente trance e downbeat. Seppur qualitativamente strepitosi, la minore incisività dei brani d’accompagnamento fa in modo che la fusione tra immagine e musica non sia mai in rapporto paritario, relegando – si fa per dire – l’aspetto sonoro a deuteragonista, quasi fosse un sottofondo dell’azione.
Le musiche di Child Of Eden torneranno però a rivestire un ruolo di primissimo piano per coloro che, completata la prima run, si cimenteranno nello score-attack: il mantenimento del moltiplicatore di punteggio è difatti legato all’esecuzione dello sparo in perfetto unisono con il beat del brano, un espediente brillante che crea un vero e proprio gioco nel gioco. Da notare come, sempre rispetto a REZ, la difficoltà del gioco abbia subito un deciso innalzamento e, per quanto completare i cinque livelli rimanga un’impresa brevissima e tutt’altro che improba, ogni traccia del paradiso del titolo, giocando per il punteggio, sparisce, lasciando spazio a una sfida poco meno che infernale e avvicinando così Child Of Eden più ai virtuosismi di un Ikaruga che ad un’ innocua gita nella psichedelia.
Child Of Eden rappresenta, nella sua splendida totalità e nel suo dualismo gioco/esperienza, la maturità di un artista che da più un decennio si preoccupa di fornire al medium una caratura tale da non farlo minimamente sfigurare se messo accanto a forme d’espressione umana ben più blasonate; al tempo stesso, riesce ad essere uno dei videogiochi più colorati, divertenti e squisitamente impegnativi di questa generazione. C’era una volta una visione, questo è il suo compimento. Ignorarlo, a questo punto, sarebbe un delitto.
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