Stavolta è finita per davvero.
L’ultimo film della interminabile saga di Harry Potter è il migliore di tutti e lascia enormi rimpianti su cosa avrebbe potuto essere la serie se nella realizzazione degli episodi precedenti fosse stato dimostrato più coraggio. Stavolta si viaggia sul sicuro, perchè, come ogni fine-saga che si rispetti, all’emozione per i nodi che vengono al pettine, c’è anche il pathos derivante dal vedere per l’ultima volta sul grande schermo i propri beniamini, ma Harry Potter e i doni della morte parte II è un ottimo film, da qualsivoglia angolatura lo si voglia esaminare. Il ritmo, finalmente, è frenetico e incalzante, l’atmosfera cupa, tesa, agosciante, la risoluzione dello scontro decisivo appagante, la lunga sequenza della battaglia finale girata con larghezza di mezzi e spettacolare come da copione (e, a detta di molti fan della saga presenti all’anteprima, più incisiva della relativa controparte cartacea).
L’idea di spalmare su due film il contenuto dell’ultimo libro si rivela vincente e permette di descrivere con maggior precisione le vicende trattate nell’ultimo libro (orologio alla mano, tra primo e secondo film sono quasi cinque ore di visione). La regia di David Yates, giustamente criticato in passato, stavolta è convincente e rende più credibile il cambio di passo tra la prima parte, più intimista, e questa seconda, quasi completamente devota all’azione e attenta ad esaltare i momenti topici del libro. Anche la sceneggiatura di Steve Kloves riesce in quello che era forse il più difficile dei compiti: assicurare a tutti i personaggi secondari il giusto spazio.
La chiusura delle mille sottotrame sviluppatesi nel corso degli anni è soddisfacente e, anche se ovviamente le luci della ribalta sono orientate verso il trio di protagonisti e il villain, alla fine c’è gloria un po’ per tutti. Da antologia la sequenza del “flashback” con i ricordi di Piton, assieme al corto animato visto in Parte I , forse il punto più alto della serie cinematografica e uno dei momenti più emozionanti dell’intera storia. Ottima, as usual, la partitura di Alexandre Desplat che ancora una volta si conferma, assieme a Michael Giacchino, come il vero erede di John Williams, il cui tema originale chiude degnamente il sipario su quest’avventura decennale.
Come giudicare quindi una delle più lunghe saghe cinematografiche di sempre? Nonostante l’ottimo finale, e anzi forse proprio in virtù di questo, permane la sensazione che molti film avrebbero potuto essere migliori sia quanto a fedeltà al testo originale che quanto a realizzazione tout court. Forse sarebbe stato più saggio rischiare, data la notorietà del brand, e affidare ogni episodio ad un regista diverso ma capace di “metterci del proprio”, come accaduto solo nel caso di Azkaban e Cuaron (che, nemmeno troppo sorprendemente, è il film che ha ricevuto le critiche migliori ma ha incassato di meno) o quanto meno ad artisti più talentuosi e coraggiosi degli onesti mestieranti che si sono avvicendati dietro le macchine da presa in questi anni. Cosa sarebbe potuto venir fuori, per esempio, da un’accoppiata Potter/Nolan o Potter/Gilliam (inglesi e quindi perfettamente in linea con il “diktat” della Rowling)? Del senno di poi… .
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