La prima cosa che facciamo al mattino e l’ultima alla sera è dare un bacio al partner, ai figli, fare colazione, leggere un libro – per esempio – oppure controllare il telefono? E il restare continuamente online, a fine giornata, ci ha reso più informati, produttivi, contenti, oppure ansiosi, irritati e forse perfino un po’ depressi? E se la risposta sembra scontata – non è il mezzo ma l’utilizzo che decidiamo di farne a produrre un risultato piuttosto che un altro – in Vita su un pianeta nervoso Matt Haig va a fondo della questione, con ironia e leggerezza, raccontandoci dei suoi problemi di ansia, degli attacchi di panico, del suo rapporto con la tecnologia, e di come l’essere perennemente connesso abbia spalancato le porte all’ingresso di una gran quantità di messaggi e situazioni che hanno minano la sua autostima e lo hanno fatto sentire inadeguato fino al punto da risospingerlo verso i luoghi bui della depressione.
Matt Haig parla in prima persona del suo rapporto con la tecnologia e i social, ma amplia il discorso e, senza avere la presunzione di universalizzarlo a tutti i costi, con numeri, statistiche e argomentazioni se non dimostra, quanto meno argomenta molto bene a favore della tesi che la nostra scelta di come utilizzare internet sia viziata in partenza e da questo difetto nella premessa non può risultare un utilizzo realmente consapevole. Non è infatti un caso se non è così semplice come potrebbe sembrare riuscire a prendere il meglio dai social lasciando agli altri le giornate livorose causate da una discussione su twitter o facebook. Il peggio è però quando la nostra esistenza virtuale mina il nostro umore, ci fa sentire insoddisfatti e insicuri anche se non riusciamo a mettere bene a fuoco il motivo di tanta irrequietezza, e questo accade perché tutto il mondo punta a catturare la nostra attenzione facendo leva sulla paura e l’insicurezza, generando un senso di ansia che si è portati a tentare di mettere a tacere cercando distrazione proprio – paradossalmente – continuando a navigare, verso altri lidi magari, ma comunque con la testa china sullo smartphone. “Non cercare la felicità nel posto in cui l’hai persa”. Ecco, per me, questa citazione descrive molto bene il punto di Matt Haig: i social ci sequestrano tenendoci in un continuo stato ansioso per sfuggire al quale andiamo a caccia di distrazioni che, controintuitivamente, continuiamo a cercare restando online. Come chiosa l’autore “la distrazione è un tentativo di fuga che di rado funziona”.
Naturalmente possiamo scegliere i contenuti, ma le nostre opzioni sono selezionate in partenza da chi vede gli utenti come consumatori, siano essi consumatori di cibo, di notizie, di letture, di pettegolezzi, di giochi. La realtà in cui siamo immersi ci spinge a essere qualcuno che non siamo per meritare e raggiungere quello che non abbiamo e che forse neanche vorremmo se non fossimo indotti a farlo. Noi donne sappiamo bene di non essere mai giuste, siamo sempre troppo magre, troppo in carne, non assomigliamo mai al modello che viene imposto, e da qualche anno a questa parte anche l’universo maschile è diventato un ambìto target del business dell’estetica. Ma in realtà il messaggio è che proprio tutta la nostra vita non va a meno che non riusciamo a dare una certa immagine di noi che è il risultato della giusta dieta, di un certo tipo di arredamento per casa, delle serate trascorse nei locali di tendenza a bere e mangiare cibi instagrammabili.
Ci viene venduta essenzialmente una felicità futura che necessariamente implica un’infelicità e un’inadeguatezza presente. Chi si occupa di marketing, esattamente come gli editori – Haig parla di “shock delle notizie” – sa bene che il nostro interesse deve essere catturato in modo aggressivo perché la soglia di attenzione degli utenti è sempre bassissima e continuamente stimolata e reclamata da mille fonti. La nostra giornata è quindi scandita da notizie che devono colpirci mentre i messaggi pubblicitari e le multinazionali ci vogliono consumatori infelici a cui poter vendere l’illusione della felicità perché, come dice Don Draper, “La felicità è un attimo prima di aver bisogno di maggiore felicità”.
Haig è consapevole, come lo siamo noi, che il progresso e internet hanno migliorato la nostra vita , seppure con qualche conto da pagare: siamo mediamente più sani, la società è meno violenta, un buon grado di scolarizzazione è accessibile a molte più persone rispetto al passato, la lotta per i diritti civili ha conquistato traguardi fondamentali, ci sono meno guerre, e il benessere è a portata di molte più persone rispetto a cinquanta, cento anni fa. Eppure sembrerebbe il contrario. Seguendo i notiziari, leggendo i giornali, cliccando sui titoli più vistosi sembra che le nostre strade siano più insicure, i crimini in aumento, la nostra vita più a rischio. Anche qui Haig nota: “la paura vende”.
La possibilità di essere connessi ovunque e comunque ha avvicinato le persone, migliorato, snellito e semplificato il lavoro, offerto opportunità prima inimmaginabili. Il problema è che diventa sempre più difficile non farsi risucchiare dalla spirale negativa che porta a un consumo ossessivo dei social: dovrebbe essere facile capire quando staccarsi ma non lo è. Circa un anno fa leggevo di una ricerca che evidenziava come “Facebook, Twitter e altre aziende usano metodi simili a quelli dell’industria del gioco d’azzardo per tenere i propri utenti sulle loro piattaforme” ( Natasha Schüll, Addiction by Design). L’attesa di like, commenti, condivisioni e risposte innesca un meccanismo sostanzialmente identico a quello che tiene incollati alle slot machine (gamifying social interaction): abbassi una leva e potresti ricevere un premio oppure no, ma sia l’assenza di un premio che una vincita legano il giocatore a continuare a tentare. La nostra “semplice” scelta, quindi, si scontra con team di super esperti che hanno studiato per decenni come progettare i social appositamente per catturare la nostra attenzione e non riconsegnarcela più.
I consigli, più che soluzioni, che Matt Haig mette insieme in un testo agile e godibile a metà tra il compendio e uno zibaldone di pensieri ed esperienze personali, non sono nulla di mai sentito, ma efficaci perché vengono da una persona che guadagna la nostra fiducia mettendo a nostra disposizione le sue esperienze di vita, anche e soprattutto le più dolorose e fallimentari, per mostrarci come nonostante tutto sembri concertare contro la tenuta dei nostri nervi e a favore dell’aumento della nostra ansia, il primo passo fattibile per chiunque da compiere è convincersi che ci sono decisamente molti fatti per i quali essere contenti, l’importante è avere la spinta ad andarli a cercare: le buone notizie tendono a non intrattenere e non attirare click.
Possiamo quindi riconquistare il nostro benessere emotivo e psicologico, dare maggiore peso ad attività che diamo per scontate quali ad esempio il sonno, l’esercizio fisico, stare all’aria aperta e soprattutto leggere libri: restare connessi, ma con sé stessi. A questo proposito chiudo con le parole di Matt Haig che ha saputo ideare una delle descrizioni più significative sul valore assoluto della lettura “Leggere è importante perché fornisce uno spazio per esistere al di là della realtà che ci è data. È così che gli esseri umani si fondono. Le menti si collegano. Grazie ai sogni. All’empatia. Alla comprensione. Alla possibilità di fuga. Leggere è amore in azione.”
Nota
Vita su un Pianeta Nervoso di Matt Haig è pubblicato da Edizioni E/O, la traduzione è a cura di Silvia Castoldi
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