Nella mitologia creatasi attorno alla sua persona, il mangaka Junji Itō ha assunto quell’aura involontariamente macabra che circonda altri miti del horror. Non ha l’allure di Dario Argento e del suo volto sottilmente disturbante, anzi: a osservarne i ritratti fotografici sembra un uomo giapponese che non attirerebbe una seconda occhiata nel vagone della metropolitana. Eppure persino nel manga biografico dedicato ai suoi dispettosi gatti fa capolino un presagio di brivido; uno dei due felini ha una macchia scura sulla testa simile ad un teschio.
Junji Itō è il mangaka horror per eccellenza, almeno per la conoscenza ristretta che abbiamo della produzione fumettistica giapponese in Occidente: non sono in molti a poter vantare una nomination al prestigioso premio Eisner per i propri viaggi nell’incubo. Come tanti indagatori e maestri del brivido, nelle sue opere più ispirate Itō tenta di dare corpo all’emozione più inesprimibile e astratta, quella del terrore. Che il disturbante si faccia carne e divenga tangibile non è un’impresa semplice, soprattutto quando si tenta di farlo in maniera inaspettata, creativa, lontano delle fonti più ricorrenti e banali dei nostri timori: il pericolo, la morte, il dolore.
Uzumaki è proprio questo: il tentativo di dare una forma a un terrore, di fare in modo che quell’invisibile sensazione paralizzante che genera sia racchiusa in un simbolo, un pattern ricorrente: quello della spirale. Narra la leggenda che Junji Itō sia stato ispirato da un edificio tradizionale in cui ha vissuto da bambino, con i suoi tortuosi meandri che costringevano a lunghi spostamenti per passare da un capo all’altro della casa. Con le sue tortuosità ipnotiche la spirale può sembrare una scelta quasi banale, ma dalla rotella del naruto alle spirale sulle guanciotte paffute dei personaggi dei manga per bambini, questa forma ha un significato positivo, spesso comico della cultura e nei fumetti giapponesi.
Per ribaltarne la valenza Junji Itō ci porta nella cittadina costiera di Kurōzu-cho (il cui nome è composto dai kanji di vortice oscuro), che nonostante la vicinanza dell’oceano e le piccole dimensioni spicca per singolare conformismo e squallore. Sin dalle prime tavole c’è qualcosa di sinistro che piega la normalità nella cittadina, dove i fili d’erba cominciano ad avvolgersi su sé stessi, il vento e l’acqua creano strani mulinelli e gli abitanti iniziano a manifestare strane devianze.
Lo sa bene Shuichi Saito, uno studente che si accorge prima degli altri dell’aura sinistra della città, forse perché frequenta il liceo in un paese vicino, forse per la sua particolare sensibilità. La sua crescente consapevolezza però non lo aiuterà a salvare i genitori, caduti vittima della spirale in modalità diametralmente opposte: il padre ne svilupperà un rapporto quasi carnale, la madre un rifiuto patologico.
Il fumo nero convoluto che si alza dal crematorio ad ogni funerale avvolge nelle sue spire una città in cui regna uno strano fatalismo di fronte ai tanti incidenti via via più paradossali e disturbanti. Kurōzu-cho è la scenografia di un gioco horror che talvolta si fa sottilmente allusivo verso un certa conformazione e un certo fatalismo che, in nome della forma e del quieto vivere, ci rendono passivi e insensibili di fronte a ogni manifestazione di devianza e orrore del nostro vicino e di noi stessi.
Un buon grado di muta accettazione lo sfodera anche la fidanzata di Shuichi, la giovane Kirie Goshima, testimone impotente delle tante storie che si avvitano fino a un’inevitabile, macabro finale. La spirale ghermirà anche lei, deviandone la bellezza aderente al canale giapponese, rendendo palese il suo ruolo di spettatrice passiva degli eventi “comandata” dal fascino ipnotico della spirale. Sopravvissuta all’incidente e resa consapevole dallo stesso, Kirie diventa una protagonista vera e propria, che si unirà a Shuichi nel tentativo di capire l’origine della “maledizione della spirale”, di tentare l’impossibile salvataggio delle sue vittime o la fuga lontano dalle sue spire.
La spirale ora sembra avere un corpo e un’origine, in quel faro nero che tanto ricorda il cugino altrettanto sinistro piazzato al centro dell’Area X da Jeff VanderMeer, ora sembra essere solo l’incarnazione simbolica della malvagità e dell’ossessione che consuma gli abitanti di Kurōzu-cho. La cittadina è un girone dantesco di dannati in attesa di cadere vittima della spirale, ma già colpevoli nelle loro meschinità in attesa di venire a galla. Durante la lettura di Uzumaki si ha l’impressione di esplorare un luogo simbolico, un contenitore costruito da Junji Itō per lavorare la suo interno l’escalation del macabro che disegna storia dopo storia, avvicinandosi via via al centro della spirale e della sua follia.
Una residua impressione di studiata artificiosità rimane nel primo volume, ma con il crescendo di tensione dei due tomi successivi la serie si libera di ogni zavorra e scivola fluida, avvitamento dopo avvitamento, verso il centro orrorifico voluto dal suo autore, il cui stile grafico, immaginazione deviante e l’organizzazione sublime dello spazio delle tavole amplifica al massimo le potenzialità delle sue visionarie storie d’ossessione e orrore.
Uzumaki di Junji Itō è insomma una grande prova in campo manga, una sorta di gioco sperimentale dai toni horror gestito con enorme maestria e consapevolezza, comparso per la prima volta nel 1998 e già considerato un classico. Sarebbe un titolo imperdibile per gli amanti del genere horror e non solo, ma il prezzo importante di copertina induce a una certa cautela nel consigliarlo. Certo il volume è molto corposo e arricchito dalla stampa a colori delle illustrazioni d’inizio capitolo, però il prezzo finale di 16 euro rimane comunque importante.
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